Sul sito IlDispaccio del bravissimo collega Claudio Cordova si dà conto della sentenza del gup Francesca Zavaglia che nel rito abbreviato – scelto da una parte degli indagati –  mette una pietra ferma nell’indagine AEmilia sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nella regione rossa per eccellenza, di cui avevamo già parlato diverse volte. Nell 1390 pagine della sentenza del processo concluso ad aprile (58 condanne, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione) si parla espressamente di «rottura degli argini» da parte della criminalità calabrese in Emilia. In realtà l’argine avrebbe dovuto metterlo la società civile, il tessuto sociale e produttivo che pure per anni è stato spacciato come modello per tutta l’Italia. E invece spulciando le motivazioni si legge che ahinoi «la ‘ndrangheta è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall’attività di recupero di crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale».

L’abbiamo scritto fino alla nausea. Ormai le cosche sono entrate nell’economia legale attraverso il loro strapotere economico. Si offrono come salvatori di imprese, poi ne strangolano i proprietari rivelandone la proprietà ma mantenendone l’apparenza di legalità. Ci sono state «condotte predatorie, vieppiù agevolate dalla grave congiuntura economica del periodo» che avrebbero assecondato «un processo di espansione, di vera e propria conquista, fortemente inquinante e soffocante il vitale tessuto locale». Quello che stupisce è «la consapevolezza dell’incombente presenza della ‘ndrangheta che viene ormai apprezzata in tutta la sua carica, significato e valenza». Cioè, in AEmilia secondo il gup la criminalità organizzata calabrese (nello specifico la cosca Grande Aracri di Cutro, in provincia di Crotone, una delle famiglie «emergenti» della ‘ndrangheta non reggina) era ormai considerato un soggetto di diritto pubblico, una sorta di interlocutore a cui rivolgersi per orchestrare usura, estorsione, reimpiego di denaro di illecita provenienza, reati fiscali attraverso il business dell’edilizia e del trasporto di materiale, «dove la potenza del clan – scrive ancora il gup – ha generato un serio pregiudizio alla libera concorrenza».

Si parla di Reggio Emilia, città guidata per anni dal ministro dei Trasporti Emiliano Delrio (che però non si sarebbe mai accorto di nulla), ma sembra si parli di Reggio Calabria: «La ‘ndrangheta ha la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione calabrese a modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socioeconomica emiliana». Il tutto senza sparare un colpo di pistola, perché alla ‘ndrangheta il sangue non piace più: attira i giornalisti e i magistrati. «L’ingente quantità di ricchezza illecitamente prodotta e distribuita ha contribuito a distendere le tensioni che sempre accompagnano le lotte di potere e a sbiadire il volto violento (pur in passato esistito anche in Emilia) dell’associazione ndranghetistica».

L’attenzione delle cosche si sarebbe infine concentrata sul sisma del maggio 2012 grazie soprattutto a una serie di fattori come «la legislazione emergenziale, l’attenuazione dei controlli e l’indebolimento psicologico e economico della società civile colpita», e anche una colossale sottovalutazione del fenomeno da parte della classe politica. Ingenua o complice, non so quale delle due cose sia la peggiore. E anche in questo caso le indagini hanno permesso di scoprire una telefonata tra due imputati che ridono del terremoto e si fregano le mani per gli affari in arrivo. «La conversazione – conclude il gup – consente di affermare che la ‘ndrangheta non si prende neanche il tempo dello sgomento». Business is business, u lavuru è lavuru.

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