IMG_3314“Il vero museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti, di ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, ecc, ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso”. Già nel 1796, più di due secoli fa, Antoine C. Quatremère De Quincy, nelle Lettere a Miranda, si dimostrava più avanzato di quasi tutti i politici di oggi, che nel parlare (raramente) di cultura e di patrimonio storico artistico, parlano di cifre, percentuali, parametri, sconti, capitoli di spesa, dei singoli musei, delle singole collezioni, dei siti archeologici, mancando loro totalmente – ripeto, totalmente – quella visione che già animava Quatremère De Quincy a fine Settecento. Ovvero che non esiste la cultura. Esiste la realtà, stratificatasi mirabilmente nei millenni, nelle piazze, nei palazzi, nelle case, nelle chiese, nei teatri, nelle abbazie, nelle famiglie, negli ospedali, nei reclusori, nei caffè, nei ristoranti. Se segmenti questa realtà in singole unità (ad esempio, i 20 musei più visitati, le cifre dei siti archeologici statali, le statistiche sulle pinacoteche civiche), avrai dossier ben documentati, impeccabili, parametrabili, ma improduttivi, sterili, incapaci di vedere come l’unica speranza di salvezza (e di grandezza) dell’Italia risieda nello splendore della sua intera complessità, non sui risultati dei singoli musei, come fossero cavalli in corsa sul selciato dell’ippodromo.

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