IMG_5551Vinicio Berti è uno dei tre apici nell’arte del secondo Novecento italiano. Finora solo un museo di rilievo nazionale (ma non internazionale) marmorizza, in modo – speriamo – definitivo, la grandezza di Berti storicizzando la sua figura, accostandola a quella di Alberto Burri e Lucio Fontana, seppur con esiti, intenzioni e poetiche assai diverse: il museo del Novecento di Firenze. Questa galleria non ha nulla di memorabile (forse l’opera di Berti e la composizione di Emilio Vedova sono le sole cose veramente distintive), ma ha sicuramente il merito di colmare il vuoto presente in tutti gli altri musei del XX secolo: la pressoché totale assenza o assoluta marginalità del genio di Vinicio Berti. Riscriveremo la storia dell’arte per farci entrare questo genio, assieme al suo allievo più magnetico e duraturo Alberto Gallingani, la cui opera più estesa, tra soffitto e pareti la potete vedere in sede permanente a Casa Nannipieri, la casa del sottoscritto (in foto). Dove sta il genio sofferente di Berti e quello, ancora assai febbricitante, di Gallingani? Nell’aver capito che l’astrattismo – la lingua artistica del secolo – era una lingua afona, autoreferenziale, solipsistica, involutiva, del tutto innocua dopo decenni di reiterazione continua: una lingua per nulla sociale, anzi intimistica, ombelicale. L’arte diventa incidente, combattente, eversiva, quando non ripete innocui monocromi o sbavature interiori, buoni per decorare di colori una parete, ma quando diventa inquietudine e tensione di segni, senso e non senso, simboli, parole, totem, messaggi, che aprono le finestre alla complessità della vita e del nostro intelletto. La natura umana è segno, simbolo. Soltanto un’arte che diventa complessità, ambiguità di segno, di simboli, come sicuramente hanno fatto Berti e Gallingani (assieme a non molti altri in Italia nel secondo Novecento), può scuotere il nostro sguardo. Il resto è stato buon artigianato astratto, buona ricerca sull’astrattismo, preziosi per allestire una parete di casa. Nulla più.