IMG_5593L’hanno beccato, secondo le accuse, a falsificare e certificare opere dell’artista Dadamaino, vendendole ovviamente per vere. Lui è un noto critico d’arte. La magistratura farà la sua parte nel capire responsabilità e innocenze, ma la domanda è: un critico che vive della sacralità intangibile dell’opera d’arte, non si sente un verme sputato dell’universo quando, consapevolmente, esercita l’azione più vigliacca che il suo mestiere consente, ovvero falsificare la storia dell’arte, inventare una storia dell’arte che non c’è, far uscire dalla mano morta dell’artista opere che l’artista mai ha prodotto o pensato e certificarle come vere? Se tu vandalizzi un’opera d’arte, ne riconosci la potenza, la maestà. Per questo la sfregi: perché ti turba la sua rilevanza. Ma se ti inventi opere che l’artista mai ha realizzato, le certifichi come manufatti da lui compiuti, le vendi come fossero uscite dal suo personale studio, tu fai un lavoro più diabolico del vandalo. L’atto dello sfregio innalza la sacralità dell’opera. La falsificazione mercantile, invece, fa una cosa più brutale. È come se dicesse: la storia dell’arte non conta niente, come se non contasse niente il corpo di un malato per un dottore. Conta la trasformazione dell’opera (vera o falsa che sia) in merce di scambio, patteggio, denaro contante. Se un critico sbaglia un’autenticazione o un’attribuzione, fa parte della difficoltà del suo lavoro di rilettore della storia dell’arte. Ma se falsifica consapevolmente opere mai realizzate dagli artisti, esso smette di essere critico ed inizia ad essere un’altra cosa: un verme.

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