IMG_6807In fondo siamo tutti figli di Duchamp. Un cesso è un cesso, ma se lo metti in un museo, quel cesso smette di essere un cesso e diventa un problema, un corto circuito di senso. Lo fece Duchamp nel 1917 e un secolo dopo siamo ancora tutti, pienamente, inesorabilmente, suoi fragili epigoni se pensiamo alle migliaia di esposizioni, installazioni e performance in luoghi monumentali e storici dove la prima domanda dell’artista o del curatore è: come mi posso far notare? Come posso far diventare notizia, clamore, interesse, desiderio, il mio gesto in un luogo che ha vissuto secoli e secoli senza di me e continuerà a farlo dopo che me ne sono andato? Ovvero, come posso diventare problema, oggetto di clamore pubblico? Come posso mettere in crisi l’immagine abitudinaria che quel luogo storico e monumentale possiede? I luoghi monumentali – chiese, abbazie, palazzi storici – hanno, in se stessi, una densità di significati non facilmente neutralizzabili. L’arte contemporanea, dopo Duchamp, ha capito benissimo questo e ci lavora come una pornostar con un vibratore. Sapendo, ad esempio, che una chiesa dove esporre è una chiesa, con altari, tabernacoli, colonne e volte che hanno in se stessi significati e simbologie non sopprimibili, l’arte contemporanea preferisce questi luoghi ai capannoni, ai supermercati o alle semplici gallerie, proprio in virtù dei significati, delle estetiche e delle simbologie non comprimibili che in una chiesa o in un sito monumentale ci sono mentre sono del tutto assenti o non attraenti in altri luoghi pubblici come capannoni o supermercati. Un capannone e una chiesa sono lo stesso scenario per esporre? Assolutamente no e infatti vengono scelti, sempre più spesso, i luoghi storici perché essi si addensano di sensi che un capannone non ha. Ma la domanda è: a chi giova? Tutto questo a chi giova? Chi ne esce potenziato? Chi avvilito o sminuito o trasformato? Farsi queste domande è tutt’altro che inutile. Non farsele significa assistere a queste esposizioni e alla trasformazione dei luoghi monumentali con l’ingenua (e colpevole) ignoranza di un dilettante.

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