Era il 23 agosto. Molti italiani al mare, altrettanti in montagna, qualcuno a lavoro e la maggioranza immersa nei propri problemi. La televisione lancia le immagini dello sgombero di piazza Indipendenza. Guerriglia urbana. Lo Stato, incarnato dalle Forze dell’Ordine, contro gli immigrati somali ed eritrei. Il finimondo. Il vociare delle istituzioni. Le bombole del gas usate come arieti, mentre volano lanciate dalle finestre del palazzo. Follia. La follia dell’accoglienza in salsa italiana, mista al delirio pentastellato romano. La sublimazione dell’inettitudine politica di una nazione davanti alle emergenze. La scrittrice, Ilaria Bifarini, trova il bandolo della matassa: “Emerge che dietro il caso sgomberi di piazza Indipendenza si nascondeva un racket di affitti in nero su uno stabile abusivamente occupato. Chi gestiva questo malaffare sulla pelle dei disperati? La prima famiglia di immigrati che si era insediata e le pseudo associazioni di accoglienza e per la lotta per la casa! Per quanto ancora il mainstream e la Chiesa riusciranno a ingannare gli italiani con il finto buonismo dell’accoglienza e lo spauracchio del razzismo/fascismo per nascondere il nuovo mercato delle vite umane?”. La speculazione su di un diritto che gli italiani si sognano, ormai. Che la vergogna sia con voi. Dalle coop, alle ong senza dimenticare i doppiopetti con ammalianti sorrisi che conducono la politica tricolore.

Davide Di Stefano, rappresentante di CasaPound, sul suo profilo Facebook incendia la polemica: “Agli IMMIGRATI, nonostante il lancio di bombole del gas e duri scontri, viene data solidarietà da organismi internazionali come l’Unhcr e da Ong come Medici Senza Frontiere, che accusano la polizia di ‘grave violenza ingiustificata’ – Agli ITALIANI non viene data nessuna solidarietà e l’amministrazione capitolina nemmeno li riceve”. Due pesi, due misure. Il marchio “d’infamia”, oggi, è rappresentato dalla cittadinanza italiana. Le istituzioni si girano dall’altra parte quando hanno a che fare con noi, con i nostri connazionali. E tutto questo mi disgusta, umiliato un popolo completamente asservito alle logiche del baratro. Non c’è limite al peggio. Porte aperte per gli immigrati e botole spalancate dove far cadere gli italiani. Messi in ginocchio, senza possibilità di difesa. Ernst Junger, ne La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione 1945-1948, scrisse: “Ci sono situazioni in cui la mera esistenza diventa opporre resistenza”. Questo è quello che dobbiamo fare, nessun timore per via del nostro genuino amor Patrio.
Ma torniamo agli scontri. Evito di entrare nel merito delle cause e sulle modalità adottate dalla Polizia di Stato, durante la guerriglia urbana scoppiata nella capitale. Ma non posso che esprimere il mio sdegno. L’amaro in bocca lasciatomi dall’aggressione, ingiusta e smisurata, che gli immigrati, mossi dai centri (a)sociali e dai marchettari della sinistra, con una spolverata di organizzazione rigorosamente non governativa, hanno perpetrato verso i tutori della legge. Scene da terzo mondo. Scene raccapriccianti. Per i media i buoni sono i “bombaroli”, quelli che cavalcano il malcontento popolare riversando il loro odio contro lo Stato. Nulla succederà a quest’ultimi finché non ci saranno leggi implacabili. Ci rendono vittime della cultura del piagnisteo. Si lamentano, ma non dobbiamo cadere nella trappola, non serve rispondere piangendo più forte, ma lottare senza fermarsi mai.
Il carabiniere Salvino Paternò, colonnello congedatosi nel 2013 dopo 36 anni di servizio in quel di Rieti, in una lettera apparsa sul quotidiano Libero ha difeso l’operato delle Forze dell’Ordine. “Se tirano qualcosa spezzategli un braccio”. Una frase, sicuramente, infelice eppure figlia di un momento al limite. Il graduato ha scritto: “In base alla legge che consente alle forze dell’ ordine (e al cittadino) di ricorrere alla violenza, con armi o con altri strumenti di coercizione (articoli 52 e 53 del codice penale), occorrono tre condizioni: – Inevitabilità, e cioè l’obbligo di invitare l’aggressore alla desistenza prima di colpirlo (ovviamente se c’è il tempo di farlo); – Attualità del pericolo, e cioè la possibilità di colpirlo solo nel momento in cui l’ aggressore sta mettendo in pericolo l’incolumità di chi si difende o di altre persone (non può essere colpito quando, pur dopo aver commesso una strage, sta fuggendo); – Proporzionalità, chi si difende deve procurare all’aggressore la stessa lesione che lui avrebbe procurato alla vittima se non si fosse difesa”. I poliziotti, in questo caso, si sono trovati spalle al muro e hanno reagito nel solo modo consono a quel caso, con l’utilizzo della forza. Era lo Stato che doveva reagire, non poteva farsi prendere in giro dall’ultimo arrivato. Una questione di diritto, una questione di spirito, una questione ancestrale. “Se tirano qualcosa spezzategli un braccio”, un’esternazione estemporanea, travisata dal contesto reale. Durante queste azioni di guerriglia bisogna mantenere il sangue freddo, ma le parole mentre scorrono, a fiumi, servono a mantenere salda l’azione degli uomini. I comandanti devono tenere alto il morale della propria truppa, evitando di farsi schiacciare psicologicamente. Oppure è la fine, ma non per gli agenti, ma per l’Italia incapace, nelle piazza tricolori, di essere difesa. Inerme davanti al nemico, pronta ad essere stuprata con il benestare del primo mediatore culturale che passa.
Per inciso, la frase incriminata, è inserita in questo contesto: “Dottore questi ci stendono, vede quanti sono? Noi siamo solo in dieci e loro hanno bombole di gas e sampietrini. Ragazzi lo dobbiamo fare, ce lo hanno ordinato e non possiamo tirarci indietro. Quando saremo li in mezzo, saremo soli, noi dieci contro loro cento. Il primo obiettivo è portare a casa la nostra pelle e quella del nostro fratello nel casco accanto. Allora se iniziano a lanciare di tutto spezzategli le braccia ma portate la pelle a casa…”. Le prospettive cambiano il senso. www.AndreaPasini.it www.IlGiornale.it
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