Per non dimenticare “Vi faccio vedere come muore un italiano”, il nostro paese ha bisogno di eroi come Fabrizio Quattrocchi. Chiedimi chi era Fabrizio Quattrocchi. Il 13 aprile del 2004, l’addetto alla sicurezza privata si trovava in Iraq e venne rapito insieme ai colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. L’Italia quel giorno trattenne il respiro. I quattro furono catturati da un sedicente gruppo denominato Falangi verdi di Maometto. Mentre gli ultimi tre vennero liberati il catanese, che da molti anni si era trasferito in Liguria, andò incontro alla morte. Pronunciando una frase assoluta. Capace di riecheggiare nella mia mente ancora oggi. “Adesso, vi faccio vedere come muore un italiano”. Era il 14 aprile 2004. I sadici terroristi ripresero l’esecuzione. Brutale, violenta, macabra ed insensata. Ma davanti a quella parole, davanti a quella frase tutto si fermò. Solo le pallottole squarciarono un istante lungo l’avvenire. Il 13 marzo 2006, “su proposta del Ministero dell’Interno Giuseppe Pisanu, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì a Fabrizio Quattrocchi la medaglia d’oro al valor civile. ‘Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l’Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l’onore del suo Paese'”. Basta affidarsi a Wikipedia per immergersi nelle motivazioni, sacrosante e legittime, di un’onorificenza che dona vita eterna.
Non tutti si sono dimenticati di questo martire. I comuni di Milano, Assisi (PG) e Castellabate (SA) gli hanno dedicato una via. Brugnato (SP) invece ha deciso di intitolargli un ponte. Addirittura Oriana Fallaci, nel volume La forza della ragione, consacrò l’opera a Quattrocchi ed agli “italiani ammazzati dal Dio-Misericordioso-e-Iracondo”​. Eppure le nostre memorie sono messe a dura prova. Pochi attimi ed il ricordo vola via, quei colpi di pistola pronti a cancellare un gesto, pronti a cancellare il sangue, pronti ad annebbiarci la vista. Occhio non vede, cuore non duole. E le nostre capacità di sopportazioni cardiache sono ai minimi storici. Eppure dobbiamo sfidare la realtà ammantandoci con il mantello dei servitori dello Stato. Di chi, davanti al boia islamico, ha tentato di strapparsi la kefiah che gli foderava il volto per uscire, un’ultima volta, “a riveder le stelle”. Livio Ghisi, dirigente provinciale genovese di FdI-An, ha pubblicato una lettera in cui lancia un accorato appello: “Dimenticato dalle istituzioni e da una parte dell’Italia politica anche nella sua terra in cui viveva e lavorava non è mai stato ben ricordato, forse per il lavoro che svolgeva o forse per le ideologie troppo patriottiche che ha onorato fino alla fatale esecuzione davanti a vigliacchi aguzzini”. La memoria non è mai troppa, bisogna lottare affinché non si spenga. Per questo Ghisi ha chiesto che a Tigullio di Chiavari, Rapallo e Zoagli venga dedicata una strada a Quattrocchi.

Dalle colonne de Il Giornale d’Italia, Francesco Storace, lancia il suo grido di rabbia: “Quanti giovani, di 14-15 anni, conoscono quel sacrificio? Quanti italiani se lo ricordano? E’ un Paese che non ha memoria. Ci si commuove, per alcuni anche giustamente, se un agnellino sta sulle nostre tavole a Pasqua, e poi questo Paese fatica a ricordare Fabrizio con una scuola o una strada. Anche se tutti, noi no: Fabrizio Quattrocchi presente”. Anche se tutti, noi no. Jack London, ne Il vagabondo delle stelle, vergò questa frase: “Se riuscire a dimenticare è segno di sanità mentale, il ricordare senza posa è ossessione e follia”. Allora ossessioniamoci, viviamo ricordando, ma senza torcicollo, senza spasmi. Con la volontà di chi vuole tornare grande, abbracciare il destino conoscendo il proprio passato, riconoscendo gli esempi fieri di italianità. Totem, in contrasto con la società liquida di Zygmunt Bauman, capaci di non farci perdere la bussola nella tempesta più sfrenata. Serve marmo contro la palude di quest’epoca, possiamo esserlo? Dobbiamo, altrimenti periremo senza lasciare alcuna traccia della nostra storia millenaria.

La situazione di questo Paese è raffigurata nella foto, che in questi giorni sta impazzando sulla rete, in cui viene ritratta un’autovettura dei Carabinieri schiacciata da un ponte nel cuneese. Ogni punto di riferimento scacciato, allontanato, mandato in pasto alla bontà di un nazione che pensa solo al futuro dei rifugiati, ma quali rifugiati poi, dimenticandosi del domani degli italiani. Per questo dobbiamo ricordare Quattrocchi, per portare il suo ardore in ogni città. Davanti alla tasse che ci uccidono, davanti all’immigrazione illimitata, che diventerà inesauribile in questi giorni di primavera che ci conducono all’estate, davanti alla burocrazia abbiamo il dovere di non inginocchiarci. Eroi siamo ed eroi saremo, ce lo chiede l’Italia. Come ho avuto modo di scrivere sulla mia pagina di Facebook: “Ci vorrebbero più italiani con gli attributi, che iniziassero a lottare tutti insieme per la propria libertà, per la propria dignità, per la propria Patria e soprattutto per garantire ai propri figli un presente e soprattutto un futuro da uomini liberi”. Svincoliamoci da queste catene, facciamolo con rabbia e con amore. Cercheranno sempre, e per sempre, di metterci i bastoni tra le ruote, di farci cadere togliendoci l’entusiasmo, facendo perire l’estro tricolore. Ma ci troveranno a cantare davanti alla sorte avversa, portando una croce che non ci grava più sulle spalle. Lo faremo per le Forze dell’Ordine costrette a sacrificarsi per un pezzo di pane. Lo faremo per gli operai licenziati. Lo faremo per i padri separati. Lo faremo per le madri perseguitate. Lo faremo per gli italiani, mentre i poteri forti ci vogliono a capo chino, porteremo in cielo la nostra indipendenza. “Libertà che ho nelle vene, libertà che mi appartiene, libertà che è libertà”, esattamente come cantava Franco Califano. www.andreapasinitrezzanosulnaviglio.com www.andreapasini.info www.andreapasini.org www.andreapasini.com www.andreapasini.net www.ilgiornale.it

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