L’ultima di giornata di Extreme, il 56esimo festival internazionale di Musica Contemporanea, è tinta d’autunno. Venezia, alle 11 del mattino il cielo è color piombo. Ma “il sole resisterà” in questo sabato 13 ottobre, azzardano alla fermata dell’1, vaporetto che arranca verso il Lido. Destinazione necessaria per raggiungere la meta: la fermata Rialto, dieci minuti a piedi e la bella Cà Giustinian si fa scoprire – sede della rassegna – a mezzo passo da piazza San Marco. Lungo il canale, procedere lenti è meglio, per apprezzare le bellezze di una città eterna. “Ci si abitua pure a questo, le bellezze“, dicono quanti ci sono nati oppure ci vivono da un bel po’. Sembra impossibile. Ma ad abituarsi al contrasto estremo tra le antichità di questo museo a cielo aperto, i suoi profumi, i colori e i venti del futuro che spirano dalle parti della Biennale, appare ancora più improbabile, a dir poco.
Questa forse è la vera magia: per dare “casa” e vita ai nuovi suoni ci si aspetterebbero hangar modernissimi, laboratori tecnologici, ambienti da fantascienza, e invece… Il festival la sua partita la gioca non risparmiandosi nemmeno sulle location. L’incontro con le nuovissime musiche e gli autori che fanno ricerca, infatti, avviene nei palazzi storici – vedi il quartier generale della kermesse – e l’Arsenale, cuore dell’industria navale locale del XII secolo. Che Extreme, anche suoi luoghi.

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Ore 15, recital del pianista Zolinsky
Al posto del digestivo c’è l’aperitivo, e lo spettatore comune scruta il programma: chi sono Clarke, Chin, Holt? Dalle parti nostre e tra i comuni mortali più conosciuti il tedesco Stockhausen e il siciliano Sciarrino. Nella bella Sala delle Colonne, stucchi e ori, luci giuste per l’occasione, il pubblico giusto per riempire quasi tutte le sedie disponibili, prende posizione per questo “ti e me“ (come dicono a Venezia; traduzione “te e me“), questo primo confronto-scontro con la musica nuova. Il direttore del festival Ivan Fedele arriva, stringe mani, saluta, sorride; non sarai mai assente alle esecuzioni della giornata. Giovani pochi a dir la verità – in questo recital – al festival “dei giovani; e alla fine in fondo si capisce perché: serialità in liberta ma non solo ovviamente, rimpastata, rivista e corretta; e non tutti i ragazzi forse… ce la farebbero. Chi scrive s’entusiasma per quel Clarke che non aveva mai sentito e per quel Chin che per quanto lunghetto, è affascinante; trattasi di variazioni, come si dice, degne di nota. Diranno cose più precise i critici, sulle loro testate; ci sono Fayenz, Gamba, Lorrai… e altri ancora. Il concerto si fa gustare: siamo dalle parti di una contemporanea-avanguardia di altissimo profilo. Applausi.

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Ore 18, quando i bassi si fanno in otto
È l’ora del Ludus Gravis, ovvero sette/otto contrabbassi all’opera. Il tempo di trasferirsi dal cuore di Venezia al piccolo Arsenale, qualche fermata e l’ingresso della sala è lì, preso d’assalto da decine di ragazzini. Ma come, la contemporanea non era off limits per i giovani e giovanissimi? Quest’anno il festival ha giocato una certa carta; i prof gli alunni ce li hanno portati a “sentire quella musica strana”. All’interno, si prende posto tra il vociare del pubblico rinforzato dai gridolini degli studenti, che di certo non hanno la riverenza dei frequentatori fedeli. Silenzio, inizia il concerto e dare il “la” tocca a Daniele Roccato, con un brano del compianto Stefano Scodanibbio. Ci si sarebbe aspettati il silenzio rispettoso del pubblico e il brusio indomo dei ragazzini, invece… Come per incanto, il rumoreggiare di questi ultimi a mano a mano va spegnendosi. A meno di cinque minuti del via, parlava solo la musica, i virtuosismi. Poi la esibizione corale, i ragazzi ancora più muti, quasi inutile dire – a proposito di ascolti – che la differenza la fanno loro, con quelle bocche aperte. E chi se lo aspettava? Già, perché diciamolo: il contrabbasso, o te le vedi all’angolo dell’orchestra a fare rigorosamente il suo mestiere di basso, appunto, oppure nel jazz a tanti non convince nei suoi assolti; perché alla fine quel modo di suonare pizzicato o ti piace oppure ti sembra difficile da comprendere, per i meno allenati un rumore di copertone; capita di non riconoscere dal nota che sta suonando. Invece, quel modo di Scodanibbio, “una roba così mai vista” commentavano gli insegnanti.

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Ore 20.30, una sera di “caos organizzato”…
Il Ludus non dà troppo tempo per respirare, c’è meno di un’ora per prepararsi all’evento della giornata, senza nulla togliere agli altri incontri. Siamo politically correct. L’appuntamento è al Teatro delle Tese, dentro l’Arsenale. Tramezzini al tonno, qualche biscotto e un caffè è quanto basta appena per recuperare l’energia necessaria ad affrontare un “osso duro”. Gli ignari verso l’ignoto, gli altri quasi-pure, perché quando si parla di Anthony Braxton si parla sempre della prima volta. Provare per credere. Il gigante del jazz-non jazz americano condito abbondantemente d’avanguardia – definirlo è sempre un’impresa – arriva tra applausi che ti aspetteresti con Madonna, eppure l’ambiente non è uno stadio. Caos organizzato? Free jazz? Sperimentazione improvvisata e scritta e ogni volta riscritta, teatro, gestualità, quante definizioni da dare un’idea di un’ora di flussi sonori, voci strumentali che si rincorrono. Nessuno osa alzarsi e chissà quanti avrebbero voluto perché per chi non è “allenato” l’esperienza è dura, una sorta di inferno mistico per attraversare paesaggi aurali in continuo mutamento. Al termine un’ovazione senza fine; ma nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere un bis – i più incalliti se lo sarebbero riservato per i riti privati di casa propria -; ma se almeno una volta non ci si è avventurati nella jungla sonora di Anthony non si può dire di essere dei buoni conoscitori di musica. Per carità, ci si arriva e non tutti arrivano, non tutti hanno la fortuna di arrivarci.

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Ore 23, l’ipnosi corre sui tasti…
Gambe elettriche, si va spediti per tornare alla Sala delle Colonne, la città anche a quest’ora è un brulicare di turisti, però la magia della notte comincia a calmare le acque delle laguna mondava, le feste brillano ma le voci si fanno più sommesse. Niente a che vedere hanno le note suonate in piazza San Marco dalle orchestrine caffè Florian con quello che si udirà più tardi. Nel salone di Cà Giustinian le luci sono soffuse, regna una calma irreale, il pubblico lemme lemme s’accomoda un po’ provato da questa maratona musicale. Il concerto parte, l’ultimo recital veneziano di quest’anno, per Andrew Zolinsky: titolo For Bunita Marcis di Morton Feldman, preminimalista. La leggenda vuole che il direttore artistico del festival Ivan Fedele non sapesse dove sistemare l’appuntamento, per via di una programmazione già fin troppo piena di prime e concerti ben concertati nel calendario. E così lui, il pianista, candidamente: «Ma perché non facciamo alle 11 di sera?». Gran sorriso e appezzamenti per l’entusiasmo: accontentato. Doveva durare 75 minuti, così da spartito – dicevano – ; ma pare che il pianista abbia sforato, portandosi dalle parti dei 90. Risultato: ipnosi pura! Una dopo l’altra una sequela al rallenty di note che poteva ed ha messo a dura prova. Esperienza ipnotica, mistica, meditativa: le definizioni trovate saranno state le più diverse. Che dire: un viaggio veramente Extreme
In allegato musiche di: Unsuk Chin,  incontro con Daniele Roccato (Ludus Gravis), Anthony Braxton e Morton Feldman