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Esce la prima edizione italiana di “Quattro vite jazz” (Taylor, Coleman, Nichols, McLean) del critico Alfred Spellman, opera in circolazione negli anni Sessanta, quando negli Stati Uniti essere nero e musicista sembrava una categoria definita a priori: povero, emarginato, tossicodipendente.

È il caso di Herbie Nichols, scomparso nel 1963: pianista mitico, riscoperto negli anni Ottanta da audaci sperimentatori come Misha Mengelberg e Steve Lacy. Spellman pone il quesito centrale: i beneficiari dell’opera di un jazzista morto, critici o tardi epigoni, si riempiono le tasche ex post mentre il compositore ha fatto una vita d’inferno. Perché, a differenza del musicista classico, le cui opere mai eseguite in vita (Webern) o che non hanno dato il giusto compenso (Mozart) rimangono comunque sugli spartiti per la gloria postuma degli autori, la situazione del jazzista è più delicata: il massimo cui possa aspirare è la registrazione, che non può catturare però il workshop continuo che ha portato a quella singola esecuzione cristallizzata su disco. 

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Drammaturgo, compositore, direttore e solista in uno, se lavora in condizioni penalizzanti non produce niente: deve creare un gruppo affiatato, i suoi musicisti imparano soltanto eseguendo e sperimentando le composizioni e l’esecuzione delle stesse sollecita cambiamenti ad ogni concerto (e questo vale soprattutto per improvvisatori radicali come Cecil Taylor, che infatti ha spesso optato per l’esibizione solitaria). La notazione jazzistica è parziale, aleatoria: l’opera si fa viva solo nella comunicazione con il pubblico. Nichols non riuscì mai a vivere della musica e fu costretto a innumerevoli lavori saltuari e malpagati: come Taylor e Coleman, che pure oggi godono di fama planetaria, da energici ottuagenari ancora sul palco, ma non disdegnarono l’insegnamento e attività più prosaiche come il lavapiatti.
In allegato: musiche di McLeanMengelberg