Era un po’ che giravo attorno. Oggi l’ho scritto sul giornale prendendo spunto dai dati Ocse sulla nostra fiscalità.

Caro presidente del Consiglio, accetti una critica. Essa non si fonda su un pregiudizio politico. E tanto meno ignora le regole spesso assurde con cui è costretto a governare e l’eredità pesantissima che arriva dal passato. Ieri l’Ocse ha certificato ciò che tutti sappiamo: l’Italia è salita al terzo posto tra i paesi più tassati del mondo sviluppato. Ci siamo presi la briga di andare oltre e fare due conti, grazie all’Istat. Eccoli. Negli ultimi dieci anni, dal 2000 al 2009, lo Stato italiano ha speso a più non posso come se fosse un ricco miliardario e di conseguenza ha raschiato anche il fondo del barile delle imposte. Eppure il suo fatturato (si chiama Pil) è andato così così.
Mettiamo giù qualche numero. E partiamo dalla spesa. In nove anni le spese correnti (mica quelle per costruire strade od ospedali) sono aumentate di 220 miliardi di euro: si tratta per lo più degli aumenti della spesa pensionistica, dei consumi della pubblica amministrazione e degli stipendi dei nostri dipendenti pubblici. Mica poco. Nel frattempo la nostra crescita (quella che in genere si indica con percentuali dello zero virgola) è stata modesta. Negli stessi anni in cui incrementavamo le uscite di 220 miliardi per apparecchiare la tavola e per pagare il servizio, il fatturato italiano cresceva di 330 miliardi. Ma ciò che più conta è che lo Stato esattore per stare dietro alle sue spese folli, continuava nella sua opera di ipertassazione. In soli dieci anni i cittadini italiani hanno incrementato il loro contributo fiscale di circa 170 miliardi di euro. Cerchiamo di essere più chiari: nel 2009 abbiamo pagato più imposte rispetto al 2000, per la bellezza di 170 miliardi di euro.
Gentile presidente, in dieci anni non si è affatto invertita la tendenza tipica dello Stato italiano. La strada è sempre la solita: si spende e si tassa. E si cresce poco. Rispetto a soli dieci anni fa i contribuenti italiani si sono visti sottrarre una montagna di quattrini. Il numero complessivo di quanto paghiamo per tenere in piedi questo Stato è stato nel 2009 pari a 700 miliardi, quasi la metà della ricchezza che i lavoratori e le imprese producono in un anno. Roba da capogiro. È proprio questa la cifra che ci ha fatto scalare la classifica dell’Ocse.
In un’intervista fatta alla Bbc, Keynes, agli inizi degli anni ’30 diceva: «Cerchiamo di non sminuire questi magnifici esperimenti e di non rifiutarci di imparare da essi… Il piano quinquennale in Russia, lo Stato corporativo in Italia… Speriamo che abbiano tutti successo». Per fortuna fascismo e comunismo sono morti, purtroppo l’invadenza dello Stato nell’economia ha vinto: soprattutto da noi. In molti ritengono che sia tutta colpa del debito pubblico e agli interessi (circa 70 miliardi l’anno) che paghiamo per onorarlo. Essi sono solo la misura della nostra malattia. Una misura peraltro che è tenuta a bada dall’antibiotico dei tassi di interesse bassi. Paradosso dei paradossi, nel 2009 e nel 2010, la nostra spesa per interessi è magicamente diminuita (grazie all’euro e alla crisi che ha ridotto i saggi di sconto a zero) di 9 miliardi l’anno. Insomma dal punto di vista puramente aritmetico non ci sono scuse: il berlusconismo ha probabilmente tenuto in efficienza la macchina. Ma il punto è che siamo arrivati al punto di doverla rottamare, questa benedetta macchina.
Scrivere è piuttosto semplice; governare no. Ma chi aspira a lasciare un segno in questo paese, deve pensare alla grande, alla grandissima. Il governo Berlusconi, grazie anche al ministro Giulio Tremonti, non poteva gestire meglio la crisi economica mondiale. E i numeri lo dimostrano. Abbiamo tenuto la febbre a bada. Ma così facendo il governo regala ai propri figli un problema e non una soluzione. In un paese in cui i tagli si contestano per principio, non è facile agire. Ma è necessario sottoscrivere un nuovo contratto con gli italiani. Altro che tagli tremontiani. Il presidente del Consiglio dovrebbe riuscire a imporre un piano molto semplice, ma coraggioso. Un taglio brutale del 10 per cento della spesa pubblica (70 miliardi) con il quale finanziare una riduzione fiscale di pari importo. Un gigantesco travaso di risorse. Sia chiaro, si tratta di un’operazione dolorosa, dolorosissima. Tagliare il 10 per cento di spesa pubblica, significa tagliare prestazioni e stipendi. Ma venire tassati al 50 per cento non lo è altrettanto?