L’ intera Borsa italiana, con tutte quelle azioni che a noi sembrano dei piccoli giganti, in realtà vale meno di Apple e Google messe in­sieme.
Oggi il problema non è tanto il nostro nanismo, roba che co­nosciamo da tempo, ma che tutto sta crollando. Se vogliamo consolarci pos­siamo dunque rimuovere il problema sostenendo che le vette da cui cadia­mo sono più basse e che le poche centinaia di società quotate in Borsa non rappresentano l’economia italiana.
Questo ragionamento consolatorio po­trebbe avere un senso se la grande crisi che sta colpendo i mercati mondiali fosse solo finanziaria. Questo ragionamento potrebbe avere un senso, come taluni cercano di fare, se si individuasse l’untore (nel nostro caso la speculazione) e su di esso si concentrassero i nostri sforzi.

Sono balle. Le stesse a cui sembrano credere Sarkozy e Merkel, quando pensano di risolvere la situazione inventando una nuova tassa sulle transazioni finanziarie. Bella ide ona, che fa scopa con quella americana di mettere sotto indagine Standard &Poor’s dopo che l’agenzia di rating ha declassato gli Usa. A Washington diranno che non è una ripicca, ma l’impressione è che sia proprio così. I politici di tutto il mondo fanno una figura mediocre e sembrano quei medici che credevano di curare tutte le malattie con le sanguisughe. Chapeau .

Vediamo prima qualche numero. La Borsa tedesca nell’ultimo mese ha perso un quinto del suo valore: peggio di Piazza Affari. Quella italiana in due mesi un quarto. Eppure essa è ancora del 15 per cento più su rispetto ai minimi che raggiunse nel marzo del 2009.

C’è ancora spazio per soffrire. E il settore che potrebbe risentirne maggiormente è ancora quello bancario. Gli istituti di credito di tutta Europa pur di non prestarsi quattrini tra di loro (tanto per dare il senso di quanto si fidino reciprocamente e di quanto credano nella bontà delle previsioni di crescita che hanno appena pubblicato) depositano liquidità presso la Banca centrale europea. Che nei suoi forzieri ha 200mila miliardi di depositi, che remunera all’ingeneroso tasso di interesse dello 0,75 per cento.

Cosa ci racconta tutto ciò? È l’economia reale che non tira. Il problema non è finanziario, ma reale. C’è in giro una montagna di liquidità, scarsa inflazione, ma nessuno ha intenzione di impiegarla: tutti hanno una paura blu. Sono le fabbriche che non producono.

Calano i fatturati e immaginate un po’ voi cosa possa succedere ai margini di guadagno. La locomotiva mondiale dell’economia si è fermata. E non si vede il carburante per farla ripartire. Il consenso della classe politica mondiale è unanime nel ridurre la spesa pubblica.

Noi conosciamo bene la procedura: sono anni che combattiamo con il nostro enorme debito pubblico che non ci permette di stare allegri. E ora anche gli Stati Uniti devono fare altrettanto. Non si farà certo più Pil, drogandolo con le commesse statali. A ciò si aggiunga che circa la metà del Pil cinese è fatto dalle esportazioni. Se però i Paesi a cui devono vendere non hanno più quattrini, è difficile pensare che la sua crescita possa continuare ai tassi a cui siamo abituati.

Quando nel 1992 l’Italia si trovò in una situazione simile, il governo Amato fece una manovra che pesava circa il 6 per cento del Pil. La domanda interna crollò. Ma all’epoca si poteva svalutare: e così facemmo deprezzando la lira del 30 per cento. Le esportazioni volarono (più 11 per cento) e alla fine il saldo del Pil, fu contenuto: meno 1 per cento.

Oggi è l’intero pianeta che si deve svalutare.

Le manovre che Italia, Francia, Spagna e Stati Uniti (solo per citare le più importanti) stanno approvando avranno un effetto depressivo sull’economia. Ma non verranno attutite dalle svalutazioni: siamo tutti sulla stessa barca e cioè nella stessa moneta. E agendo sulla leva delle entrate l’effetto depressivo sarà moltiplicato (meglio tagliare 1 euro di spesa pubblica, che prelevarlo dai contribuenti).

Non è la fine del mondo. Non è la prima né sarà l’ultima crisi globale. Il tema è quanto durerà. Milton Friedman ha spiegato mirabilmente come la Grande depressione americana sia stata generata e amplificata da clamorosi errori di politica monetaria.

La politica europea oggi deve interrogarsi su come meglio fare non già nell’evitare la crisi (le fabbriche non fanno il loro fatturato per decreto ministeriale, i servizi non si vendono per decisioni governative), ma nel creare le condizioni migliori perché l’economia reale riprenda a girare. Prendersela con il termometro (il vertice franco-tedesco)vuol solo evitare il problema. E semmai lo aggrava.

Le Borse di tutto il mondo hanno semplicemente intuito che i nostri politici non hanno la più pallida idea di come uscirne. E vendono.

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