Negli ultimi due mesi una dozzina di piccoli imprenditori si è tolta la vita. Quando una crisi economica morde, il fallimento dell’azienda per un piccolo imprenditore è il fallimento della propria vita.

Una caduta che sembra irreversibile. Purtroppo non è la prima crisi economica che affrontiamo e il fenomeno dei suicidi è una costante. Ciò che cambia è che l’urlo di disperazione e di rabbia dei nostri concittadini questa volta ha un indirizzo ben preciso: lo Stato. E ciò è molto pericoloso.

In Italia non esiste quella fumettistica divisione tra capitale e lavoro, che qualche reduce degli anni Settanta vuole ancora raccontare. Il 90 per cento delle imprese italiane è di dimensioni microscopiche: i dipendenti e i datori di lavoro sono sulla stessa barca. Frequentano gli stessi bar, vivono nelle stesse piazze, lavorano nei medesimi spazi. Per un’impresa che muore, crolla la famiglia che ha pensato la bottega e chi ci lavorava dentro. Tra il leader di un’impresa e i suoi collaboratori non ci sono filtri.

È più facile attribuire responsabilità e censurare cattive pratiche.
Quando una piccola impresa attende sei mesi per essere pagata dallo Stato (e non solo, anche le grandi imprese pagano con ritardi mostruosi) e nel frattempo si vede consegnare con rigore e puntualità le cartelle esattoriali, perde la pazienza. Quando ad una piccola impresa non è riconosciuta la possibilità di un minimo errore formale, ma la pubblica amministrazione ragiona con metodi prussiani, perde la pazienza. Quando una piccola impresa subisce un controllo al mese e vede che per ottenere una qualsiasi licenza deve avere quantomeno buone relazioni, perde la pazienza. Quando una piccola impresa compete con tutto il mondo e vede che i burocrati pubblici le affibbiano oneri e regole da multinazionale, quando cioè un parrucchiere deve trattare i suoi rifiuti come quelli dell’Eni, perde la pazienza.

Per anni ci siamo disperati per l’occupazione in Italia. Abbiamo pensato, e in parte continuiamo a farlo, che il lavoro sia un diritto. Bene, benissimo. Ma chi lo deve assicurare questo diritto? Berlusconi, ora Monti? Non diciamo sciocchezze. Quel diritto esiste solo se riconosciamo un superiore diritto ai medesimi cittadini di fare impresa. Pensiamo alla tutela della salute del lavoro e imponiamo spesso regole minuziose a tutela dei dipendenti. Perfino il calcolo per legge del loro potenziale stress. Forse sarebbe bene ribaltare l’ordine delle priorità.

Sono le imprese che fanno occupazione e dunque reddito. Sono loro che debbono essere tutelate. Non servono quattrini. Smettiamola con i sussidi, che poi vanno a finire solo a coloro che hanno le relazioni migliori. Bisogna fare una 626 (la legge sugli infortuni) delle imprese.

Sovraordinare l’interesse degli imprenditori a quello della burocrazia, che fino a prova contraria dovrebbe esserne al servizio.
Sostituire il mito del diritto al lavoro con il diritto dell’impresa. Lo statuto dei lavoratori con lo statuto delle imprese. Vi sembra normale che lo Stato pretenda puntualità sui suoi crediti fiscali da parte delle imprese, e non applichi lo stesso rigore ai suoi pagamenti? Basterebbe una piccola norma che vietasse pretese fiscali a imprese in credito dallo Stato. Questo è il diritto dell’impresa.

La crisi economica è seria. Ma se pensiamo che la soluzione sia quella di tutelare i posti di lavoro e non il posto delle imprese, continuiamo a sbagliare strada. I cittadini che se la prendono con Equitalia sbagliano (anche se i blitz natalizi a Cortina fanno pensare). Guardano al dito e non alla luna. È lo Stato con le sue regole ideologiche modellate sull’imprenditore cattivo ed evasore ad essere il colpevole.