Mario Monti lo aveva detto: chiederemo a tutti di rinunciare a qualcosa. E in effetti la bozza di riforma del lavoro che circola non accontenta pienamente nessuno. Il Pd si spacca tra l’ala sinistra (con la mezz’ala Bersani) e i montiani: non va giù, soprattutto pensando alle prossime campagne elettorali, la rottura del tabù articolo 18.

Il Pdl si dice soddisfatto, ma l’anima più tecnica e vicina all’ex ministro Sacconi conosce bene alcune conseguenze pesanti che deriveranno per l’elettorato moderato. Confindustria perde sui contratti flessibili, le piccole imprese sul costo del lavoro e i sindacati sulla loro centralità. D’altronde una riforma che accontenti tutti che riforma è?

Cerchiamo, nei limiti di una bozza ancora da definire nei suoi aspetti tecnici, di fare un decalogo del nuovo lavoro in Italia. Ricordando che sono due le questioni affrontate dal governo: la licenziabilità per le imprese con più di 15 dipendenti e la tutela dei disoccupati.

Quattro aspetti positivi e altrettanti negativi. Partiamo dai primi.
1. Monti ha detto, come sa ben fare chi ha studiato dai gesuiti, che la concertazione è finita. Inventata dal tecnico Ciampi, essa muore con il tecnico Monti. I sindacati si consultano, ma alla fine la decisione spetta al governo e al Parlamento. Questo è il primo vero tabù che si cancella. Non c’è un potere di veto dei sindacati e men che mai della Cgil. Rompere la concertazione vuole anche dire ridurre il ruolo politico di Sindacati e Confindustria. Se il loro giudizio ha solo valore consultivo sulla materia che più riguarda loro (come appunto il lavoro) c’è da immaginarsi quanto poco peseranno sulle scelte di politica economica che il governo farà in futuro. La politica debole cercava una stampella nelle forze sociali, un governo forte se ne può infischiare.

2. L’articolo 18 era diventato un feticcio politico, al di là della sua reale efficacia. Il governo cancellando l’obbligo di reintegro per quelle imprese che vogliano licenziare fino a 4 dipendenti per motivi economici, affonda la barca dello Statuto dei lavoratori. Si è toccato un simbolo del centralismo sindacale e il combinato disposto con la fine della concertazione riequilibria i pesi dei poteri in Italia. In quale Paese al mondo una dichiarazione di un leader sindacale o di un leader confindustriale aveva l’eco dell’Italia? Nessuno. Ci avviamo anche noi per questa strada.

3. Concretamente l’articolo 18 si cambia davvero solo per i licenziamenti che riguardino motivi economici. In questi casi non ci sono giudici di mezzo e non ci sono lentezze burocratiche. L’eventuale sanzione per un licenziamento che è considerato illegittimo dal punto di vista economico (su ricorso del lavoratore) non è più il reintegro sul posto di lavoro, ma la corresponsione di un’indennità all’ex dipendente. Non c’è dubbio che per le medie e grandi imprese rappresenti un aiuto. Fino a ieri potevano fare solo licenziamenti collettivi. Da domani potranno intervenire con molta maggiore libertà. E solo se dovessero abusare di questa libertà verrebbero sanzionati: ma solo economicamente.

4. Il nuovo sistema di ammortizzatori sociali, tutto da vedere ancora nel dettaglio, parte da un principio sacrosanto e che la Fornero ha spiegato bene: non si intende difendere più il posto di lavoro, ma il lavoratore. Insomma basta con aiuti che tengano in piedi posti di lavoro in aziende decotte e in prospettiva improduttive. La Fornero ha anche stabilito un altro principio di buon senso: al lavoratore sussidiato che non accetti un nuova soluzione di lavoro si toglieranno i benefici dell’assistenza. Bene. L’assegno passa (a regime) da un massimo di 4 anni a 1 anno (estendibile a 18 mesi) e da una platea di 4 milioni di lavoratori a una di 12 milioni. Una tutela unica e universalistica sembrerebbe in linea di principio più moderna.

A questi aspetti decisamente positivi se ne contrappongono però altrettanti potenzialmente molto negativi.
1. Il primo è, per così dire, ideologico. La Fornero (ma Monti è d’accordo?) ha sostenuto che il suo modello di riferimento è il lavoro subordinato e a tempo indeterminato. In un Paese che è fatto da milioni di piccole imprese, da autonomi e rapporti di lavoro inevitabilmente flessibili, l’affermazione è decisiva. Insomma il modello che ha in testa la Fornero è più simile alla Torino operaista (ben mantenuta e modernizzata) che all’America delle newco. In un Paese in cui un giovane su tre è disoccupato e il tasso di attività è di dieci punti inferiore al resto d’Europa (meno persone che cercano occupazione) forse sarebbe stato meglio pensare a come migliorare la flessibilità e non a come trasformarla con una camicia di forza in nuova rigidità.

2. Conseguenza inevitabile di questo approccio ideologico è la riduzione e l’irrigidimento di tutte quelle forme contrattuali pensate dalla legge Biagi. Per colpire gli abusi si fa un passo indietro nella flessibilità contrattuale. Le norme sembrano scritte più da un ispettore del lavoro che da un economista attento alla creazione di nuove opportunità di impiego. Maggiori controlli, più oneri burocratici, limitazioni più stringenti per tutti i contratti flessibili. Con il paradosso che sarà più facile licenziare, ma i nuovi licenziati avranno maggiore difficoltà a trovare una soluzione temporanea o flessibile, che è il tipico cuscinetto dopo la fuoriuscita dal mondo delle imprese.

3. Se una riforma del lavoro si fa, il motivo è rendere il mercato più funzionante: far incontrare meglio domanda e offerta.

Ridurre i bassi tassi di occupazione. Ebbene: una delle chiavi della nostra arretratezza risiede nella differenza tra quanto un lavoratore prende (poco) in busta paga e quanto il suo principale paga (tanto) e cioè il cosiddetto cuneo fiscale. La riforma Fornero aumenta contributi e costi per i datori di lavoro. I contratti flessibili saranno più onerosi. I precari invece di essere pagati di più, costeranno di più: una follia che ridurrà forse il numero dei precari, ma incrementerà il lavoro nero. Invece di ridurre il cuneo fiscale lo si aumenta.

4. Il mondo delle piccole imprese (artigiani e commercianti) pagherà il conto. Verranno smontati i loro sistemi di welfare (i cosiddetti enti bilaterali che venivano pagati dagli autonomi) a beneficio del nuovo assegno di disoccupazione. Centralismo statuale e democratico. Ma molto poco adatto al nostro variegato tessuto di pmi: la tutela della disoccupazione se la sono sempre pagata con i loro contratti collettivi. Perché buttare a mare questa sussidiarietà virtuosa? A ciò si aggiunga che queste imprese non avranno alcun vantaggio dallo spacchettamento dell’articolo 18: potranno licenziare così come hanno sempre fatto (con giudizio) nel passato. E non potranno farlo per licenziamenti discriminatori esattamente come avviene dal 1990.

Al di là di tutti questi aspetti, ciò che insegna il diritto del lavoro dallo Statuto in poi, è che la prassi è quel che conta. Se, ad esempio, non ci fossero stati i pretori del lavoro degli anni ’70 e ’80, probabilmente oggi l’articolo 18 sarebbe molto meno potente. Solo con il tempo capiremo dove penderà al bilancia: verso più regole, rigidità e tasse o verso meno cavilli, flessibilità e oneri.

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