Circa 12mila imprese invisibili sono fallite l’anno scorso. Lo dice l’ottima Cgia di Mestre.Sempre l’anno scorso,secondo la Coldiretti, hanno chiuso i battenti 50mila imprese agricole.

Mal contati sono 100mila posti di lavoro che si sono volatilizzati. Sono tutti figli di un Dio minore. Valgono due volte il numero dei dipendenti Fiat. Eppure non sono loro a riempire le piazze televisive. Non sono loro a innescare dibattiti sociologici. Non è per loro che si modifica l’articolo 18. Non sono loro che vogliono più tasse. Non sono loro che considerano i propri dipendenti dei nemici da sfruttare.

Sono invisibili e soli. Chiudono e soffrono senza un alito di indignazione. Qualche volta viene un’improvvisa voglia di occuparsene quando si danno fuoco, si impiccano, si sparano alle tempie.Ma la rottura della tela dell’indifferenza viene subito accomodata, quasi si avesse paura di fare i conti con ciò che siamo.

L’Italia ha vergogna dei suoi invisibili. L’Italia disprezza e non capisce chi è fuori dal cliche padrone-dipendente. Chiudono i battenti senza che nessuno dica nulla. E loro stessi non urlano a nessuno il proprio disagio. Lo confinano nei drammi di piccole storie familiari, nel chiuso delle mura domestiche. Perdono il lavoro e un sogno di indipendenza e vedono gli intellettuali che parlano del disagio operaio, dei cassintegrati. Loro che sono gli operai del nostro successo a cui non è stato fornito alcun ammortizzatore sociale. Loro sono i rifiuti del politicamente corretto che per anni ha sostenuto la loro incapacità di fare sistema, di fare ricerca, di creare ricchezza. Si è visto dove sono finiti gli altri. Ma non si vede e non si sente dove finiscono i nostri centomila piccoli imprenditori e collaboratori che dall’oggi al domani non si trovano in tasca più nulla.

Si ammazzano perché non hanno neanche un nemico preciso da odiare. La banca che non gli concede il prestito, lo Stato che gli impone obblighi, le grandi imprese che non li pagano, i funzionari pubblici che li considerano un numero, sono il nemico. Sono sommersi, sopraffatti dal «sistema». Si muore a causa del sistema. Non c’è un obiettivo preciso da combattere; c’è un sistema che ti ammazza. Sono soli, isolati, ma sono tanti.

Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori del settore manifatturiero, partite Iva dei servizi, agricoltori, edili sono distrutti dalla crisi economica. Sono i precari della nostra società a cui però non è attribuito alcun merito e alcuna riconoscenza. Sono imprenditori e dunque per definizione ricchi e sfruttatori. Escono le statistiche sui redditi dei lavoratori dipendenti che superano quelli degli indipendenti. E tutti a gridare sull’ingiustizia di una foto che denuncerebbe la diffusa evasione fiscale della nostra società. Nessuno che laicamente ragioni, che comprenda la difficoltà, anche economica, di fare impresa in Italia. Tutti ubriacati dal racconto di un mercato fatto solo di contrapposizione di interessi, di buoni e cattivi. Non ci si rende conto di quanto sia difficile per circa sei milioni di piccole imprese comprarsi un lavoro: quello che si fa ogni mattina quando si alza la serranda della propria attività o si accende una macchina nella propria bottega.

E la politica è lontana, lontanissima. Imprigionata in quella tenaglia del consenso per cui il grido di mille piccoli che saltano è solo fastidioso rumore.

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