L’incontro tra governo e Fiat di due giorni fa ha partorito una Topolino. Forse meno. Era difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Il governo non aveva nulla da dare, la Fiat poco da chiedere. Pensate un po’ ci siamo ridotti a pensare che la riunione sia andata bene solo perché è durata molto: semmai è stata noiosa. E qualcuno si compiace per l’apertura di un tavolo tra le parti al ministero dello Sviluppo economico. Come si sa, in Italia, un tavolo, come una commissione, non si nega a nessuno. Soprattutto se si ha intenzione di fare poco, nulla.
Il governo non può concedere nulla per un motivo molto semplice: non ha un soldo in cassa. Anzi cerca sempre forme nuove per tirarne fuori qualcuno dalle tasche degli italiani. E se per ventura avesse un soldo bucato da investire, sarebbe ben strano che lo concedesse alla Fiat. Ci sarebbe una rivoluzione.
Ma soprattutto la Fiat non ha nulla da chiedere a questo governo. La ditta è diventata una multinazionale: in Italia perde 700 milioni e produce meno di 500mila auto, all’estero fa utili per un paio di miliardini e produce qualche milione di vetture. Il governo brasiliano le presta quattrini per aprire una superfabbrica, da noi ha piuttosto la necessità di chiuderle le fabbriche.
L’incontro a Palazzo Chigi poteva produrre poco e ha perfettamente mantenuto le premesse.
In tutta questa storia c’è un errore di fondo: si confonde il manager che gestisce l’azienda (Marchionne) con il padrone della stessa (Agnelli-Elkann). Quando Marchionne arriva a Torino la Fiat era talmente un disastro che gli americani della General Motors gli danno un mucchio di quattrini per evitare di portarsi a casa, cioè a Detroit, l’intera baracca. Lo pagano per tenersi il bidone. La Fiat all’epoca valeva 6 miliardi, oggi 16. Nel frattempo si è comprata la Chrysler, che come la Fiat era fallita. E l’ha rivoltata come un calzino, rendendola più che profittevole. Marchionne fa il manager, non il padrone. Gli è stato chiesto di salvare la Fiat e lo ha fatto. Gli è stato chiesto di aumentare il valore delle azioni e lo ha fatto. Gli è stato chiesto di dare un futuro alla casa automobilistica e lo ha fatto. Ha commesso sicuramente molti errori, come quello di raccontare la balla di Fabbrica Italia e dei suoi 20 miliardi di investimenti. Già all’epoca era noto a tutti come in Europa il problema era quello di chiudere le fabbriche non di aprirne di nuove o renderle più grandi.
Chi oggi vuole spiegare a Marchionne come fare nuovi modelli, impostare strategie, rafforzare le fabbriche italiane, dove era nel 2004 quando la Fiat era sostanzialmente fallita? Siamo un Paese di allenatori di calcio, ma anche di manager fuoriclasse. Anche se spesso non tocchiamo una palla e non sappiamo neanche tenere a bada la contabilità domestica.
Diverso è il discorso per l’azionista di riferimento della Fiat, e cioè la famiglia Agnelli. Il manager fa il lavoro brutto e sporco, ma chi gode dei benefici sono gli azionisti. Che non possono far finta di arrivare dalla luna. Marchionne viene dalla luna, gli azionisti di riferimento no. Sono loro che hanno mantenuto in pugno l’industria dell’auto nazionale grazie alla protezione che nel secolo scorso la politica ha garantito loro. La politica anche in questo caso ha il solo potere della moral suasion. Ma non sbagli bersaglio. Le scelte industriali le facciano i manager. Ma dagli azionisti si pretendano investimenti e maggiore attenzione verso l’Italia.

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