Enrico Letta fa bene a farsi un giro per le cancellerie europee. Il programma economico che ha abbozzato ieri in Parlamento non è assolutamente compatibile con i nostri vincoli di bilancio.
Se possiamo dare un titolo al suo libro degli impegni è «Il patto di stabilità è morto».
Il programma si sviluppa essenzialmente in tre campi.
1. Il lavoro. Sembra chiaro che il governo Letta voglia mettere mano alla riforma della Fornero. Riportando un po’ di flessibilità nei contratti in entrata e nell’apprendistato. Ci sono inoltre una serie di proposte di defiscalizzazione del costo del lavoro. Ma qui entriamo nel secondo punto.
2. Riduzione delle imposte. Si parte dalla cancellazione della rata Imu di giugno. Non è chiaro cosa comporti a fine anno. Difficile pensare che sia solo uno spostamento della tassa a dicembre. Ma sul fronte della casa il governo ha promesso molto. Una rivisitazione dell’imposta sui servizi-rifiuti (la Tares), incentivi alle ristrutturazioni edilizie (già aumentate dal decreto Passera) e sgravi su affitti (per cui Confedilizia plaude) e alle giovani coppie. Si cercherà di sterilizzare l’aumento di un punto dell’Iva. E, come detto, c’è un corposo pacchetto di riduzione del costo del lavoro per via tributaria: non solo per giovani e neo assunti, ma anche per dipendenti stabili. Difficile quantificare il totale, ma solo Tares, Imu e Iva valgono (per i prossimi sei mesi) 6 miliardi. Nel complesso non è una misura choc di riduzione fiscale. Sono aggiustamenti e correzioni rispetto alle nuove imposte introdotte dal governo Monti.
3. Aumento della spesa. Sul fronte delle uscite gli annunci del governo sono, sulla carta, molto più corposi. Il rifinanziamento della Cassa integrazione, delle missioni militari, la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione e il fondo di garanzia delle piccole e medie imprese valgono complessivamente sei miliardi. Ma si tratta di peanuts. Il costo degli esodati è difficile da quantificare. L’accenno al reddito minimo per le famiglie bisognose può aprire varchi di spesa pubblica devastanti. Basti pensare che 800 euro per un milione di persone (nel solo 2012 sono tanti i nuovi disoccupati, non necessariamente indigenti) ha un costo annuo di 10 miliardi. E poi c’è l’estensione degli ammortizzatori sociali per i precari, il piano dell’edilizia scolastica (36mila edifici) e il piano pluriennale per la ricerca e sviluppo (che però potrebbe essere finanziato con project bond). Insomma, sulla spesa c’è un forte sapore keynesiano di intervento in parte di sostegno e in parte di investimento.
Ovviamente il nostro è un esercizio puramente teorico. Ma ci porta ad alcune conclusioni chiare. Dalle parole di Letta si vede un acceleratore premuto più sulla spesa che sulla riduzione delle imposte (a parte la concessione simbolo, ed evidentemente politica, sull’Imu). Il presidente del Consiglio ha inoltre detto che la riduzione fiscale deve avvenire senza indebitamento. Difficile capire come. Poco si è detto, al contrario, su come si dovrebbe invece finanziare la nuova spesa. Anche se la cornice, dice Letta, è quella di mantenere il percorso di risanamento, senza il quale l’Italia muore.
È del tutto mancata (a parte il taglio simbolico dei doppi stipendi ai ministri che vale 672mila euro l’anno) una previsione di riduzione di spesa pubblica, che è pari (esclusi gli interessi sul debito) a 700 miliardi di euro l’anno.

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