L’America dei limousine liberal si sta indignando perché l’amministrazione Obama ha tracciato milioni di tabulati telefonici in cerca di possibili terroristi. Non sono state ascoltate le telefonate. Ovviamente. Sono stati catalogati solo i dati alla ricerca di anomalie che facessero pensare ad attività potenzialmente terroristiche. Benvenuti nella società del Big Data. Tra poco scopriremo cosa è. Anche Bob non sapeva cosa fosse. In fondo vive in una piccola città del Minnesota. Va a fare la spesa da Target, come tanti americani. E ha una figlia minorenne. Si stupisce però quando proprio dai grandi magazzini arriva una lettera indirizzata a Jessica. Contiene una serie di coupon per lo sconto sugli acquisti di pannolini e pappette per i bebè. Chiama seccato il responsabile per i clienti di Target e si lamenta: «Ma cosa fate?, spingete una minorenne ad avere figli?». Dopo qualche settimana Bob scopre che la figlia era in stato interessante piuttosto avanzato. I magazzini sapevano ciò che il padre ignorava. Semplice: colpa del Big Data. Target da anni monitora gli acquisti dei propri clienti e ha sviluppato un algoritmo, a prova di bomba, che mette in relazione certi acquisti con la prossima nascita di un bebè. Il cervellone fa qualcosa di più. Sa perfettamente che una neomamma cambia stile di vita e cerca di mantenerla fedele ai suoi luoghi d’acquisto: ecco perché in automatico invia i buoni sconto. Il Big Data nasce dall’incredibile mole di informazioni che oggi sono immagazzinabili e che è possibile velocemente elaborare. Wal Mart ha due milioni di impiegati e vendite per 450 miliardi di dollari (un quarto di tutto il Pil italiano) e ha un cervellone che immagazzina tutti gli acquisti. Ovviamente. Ma li mette in relazione al tempo, al luogo, alla loro combinazione nel carrello della spesa e alla frequenza di acquisto. Più che un grande magazzino è diventato una piattaforma logistica. Quando si prevede un uragano, cambia i dispenser davanti alle casse: perché ha scoperto che vanno forte dei particolari snack che solo gli americani possono ingollare. Ma così è. Amazon, la più grande libreria on line del mondo, fa un terzo delle sue vendite sulle raccomandazioni one-to-one (cioè personali) che invia ai suoi clienti. Il Big Data di Amazon traccia tutto: quando entrate nel sito, cosa vedete, quanto ci state, dove comprate, che giudizi date. Sanno i vostri gusti meglio dei vostri genitori. È il Big Data. La rivoluzione culturale di questo secolo. E anche il titolo di un libro informato di Viktor Mayer e Kenneth Cukier che ci spiega come questa rivoluzione stia trasformando il modo in cui viviamo, lavoriamo e pensiamo.
È più del Grande fratello, è cento anni avanti a Minority Report o Person of interest (la serie televisiva sugli occhi elettronici di New York), Big Data è un nuovo paradigma che si regge su due leggi fondamentali.
La prima è la fine dell’accuratezza. L’importante è il volume dei dati e non tanto la loro precisione. Il vecchio mondo si basava sui campioni e sulle statistiche, che proprio perché limitati a pochi casi dovevano essere puntuali. Oggi non serve più. Pensate al miglior traduttore istantaneo del mondo: è Google. Ha sbaragliato la concorrenza non perché il suo algoritmo sia migliore, ma per il suo metodo. Si basa sui miliardi di pagine processate ogni giorno su internet e sulle relazioni tra le parole, senza alcun filtro grammaticale e lessicale: questo permette al motore di ricerca di trovare la connessione e la relazione tra miliardi di parole e generare così una piattaforma di traduzioni formidabile. Che crescerà nella sua accuratezza con il crescere del traffico sulla rete.
La seconda legge vede il superamento dei nessi di casualità a favore delle correlazioni. Facciamo un esempio tratto dal Big Data. E che riguarda uno dei campi in cui sta più prendendo piede: la sanità. Pensiamo alla previsione di un’epidemia influenzale. Fino ad oggi il sistema americano, piuttosto avanzato, si basava su un data base centralizzato in cui confluiscono tutte le ricette e le prescrizioni dei medici a stelle e strisce. Sembra Big Data, ma non lo è. Troppo accurate, verrebbe da dire. La rete si è dimostrata più efficiente, grazie allo studio delle parole chiave utilizzate nelle ricerche dei motori di ricerca. Se si viene a scoprire che sono state digitate le parole «tachipirina», o «febbre», o «brividi», o qualsiasi altro termine che abbia a che fare con la cura dell’influenza, si potrebbe mappare in tempo reale (e non dopo settimane) il nascere di un’epidemia influenzale, circoscrivendola per zone. È quanto fecero i ricercatori americani per la diffusione del virus H1N1. Pubblicarono su Nature una ricerca in cui dimostrarono come l’utilizzo delle ricerche internet avesse fornito una mappa dei focolai molto più accurata e tempestiva di quanto avesse fatto il cervellone della sanità americana.
Big Data è il futuro, senza aggettivi. Ma con molte questioni politiche e filosofiche che lascia aperte. Il sistema di correlazioni, per cui non è importante il perché avvengano certi fenomeni, ma che cosa avverrà, può essere micidiale. Ed ha a che fare con l’etica. Riguarda la dittatura dei numeri e il libero arbitrio. Un nostro comportamento, ad esempio, potrebbe essere correlato molto fortemente alla nostra aspettativa di vita e dunque alle sue implicazioni commerciali (assicurazioni che non ci assicurano, tasse che ci inducano a comportamenti ritenuti socialmente virtuosi). Ma su questi temi, grazie al cielo, non c’è un algoritmo che ci salva. Sarà la sfida intellettuale e politica più importante del prossimo futuro.

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