C’è Un grande equivoco sugli sforzi, apparentemente meritevoli, che si stanno facendo per trovare uno sbocco lavorativo ai giovani. In sintesi si cerca di sconfiggere il male curandone solo gli effetti. Vediamo senza ipocrisie il perché.
1. Si ha un’idea corporativa della società. Si ritiene che i giovani siano una categoria a sé. Si pensa che siano necessarie misure ad hoc (che servono, ma tra poco vedremo quali) e non soluzioni più generali che mettano in moto il sistema produttivo. L’occupazione non si fa con i decreti dei governi, ma con la prosperità delle imprese. Isolare il club dei giovani per poi proteggerlo può fare solo danni.
2. Alcune ipotesi di lavoro disegnano riduzioni del costo del lavoro solo per i giovani. Sarebbe una follia. Si creerebbe una nuova frattura sociale. I non giovani che hanno perso l’occupazione sarebbero meno appetibili per l’impiego e difficilmente riassorbibili dal settore produttivo.
3. Il vero macigno da sollevare è la struttura del nostro welfare. Le pensioni dei più giovani saranno calcolate sui contributi versati: nell’arco della vita lavorativa si accumula 100 e al momento della pensione si otterrà 100 più gli interessi. La grande maggioranza dei pensionati di oggi ha invece assegni di quiescenza scollegati dai contributi versati. Abbiamo veramente voglia di ridurre il costo del lavoro, riducendo il cuneo fiscale? Si abbia allora il coraggio di dire che oggi assistiamo a un gigantesco trasferimento di risorse dai più giovani agli attuali pensionati. I primi costano caro per sorreggere un sistema di welfare che non li riguarda. L’accomodamento all’italiana nasce dal fatto che i genitori pagano il sostentamento ai figli sempre più grandi, grazie all’ingiustizia di cui proprio i figli sono vittime.
4. Vi siete mai chiesti per quale motivo un cameriere in un ristorante americano è spesso un giovanotto? Per il semplice motivo che in un sistema di lavoro flessibile, la manodopera non è incastrata nel proprio destino per sempre. La flessibilità nel mondo del lavoro è una misura che si deve adottare per rendere la società più flessibile e meno statica. In un’economia che cresce poco immaginare un set di regole giuslavoristiche fisse e rigide, sia pure pensate per tutelare i più deboli, non fa che cristallizzare le loro posizioni per sempre.
5. Infine occorre fare una grande operazione di verità sull’istruzione universitaria. Per l’80 per cento è finanziata dalla fiscalità generale e solo per la residua parte dalle rette degli studenti. La meritocrazia universitaria non può dunque essere un optional, ma la regola. L’università non è un diritto, ma una conquista che viene attualmente pagata dalla collettività. Molti giovani pretendono un posto di lavoro adeguato ai propri studi, dimenticando che quegli studi sono stati pagati da altri. E soprattutto che quegli studi, troppo spesso in Italia, non hanno risposto alle richieste lavorative della società, ma alle loro legittime curiosità di conoscenza. Non si riesce a capire dunque per quale motivo la collettività (dopo avere finanziato i loro studi) si debba occupare di finanziare la loro disoccupazione.

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