E’ sempre più evidente che la tassazione sulle rendite finanziarie, in realtà è una tassa bella e buona sul risparmio. E che colpisce più il signor Rossi del signor Agnelli. Tra poche settimane uscirà anche in Italia il testo dell’omologazione economica di Piketty sulle (presunte) diseguaglianze economiche che crescono nel mondo. E sulle ricette (assurde) per eliminarle. C’è da scommettere che sarà il testo più citato dai nostri politici alla ricerca del consenso. E alla caccia di nuove forme di tassazione. Anzi, delle solite, e cioè quelle sul patrimonio.
Ebbene, come dimostra la tassazione sulle rendite finanziarie portate dal 20 al 26% dal governo Renzi, non c’è nulla di più ingiusto di questa benedetta tassa dal contenuto patrimoniale. Da tutti raccontata come l’imposta sulla finanza, sui rentier, sui padroni del vapore. Ma fateci il piacere. Vogliamo esagerare: se c’è un’imposta che le si può avvicinare è quella introdotta del Regno d’Italia sul macinato. È una tassa che colpisce il risparmio diffuso, attraverso tutte le sue forme, in modo apparentemente infinitesimale, ma tutto sommato elevato. È una tassa che ai ricchi, anzi come dice Renzi, ai ricconi, costa molto meno. Pensate che la zuppa sia ideologica, prevenuta? Seguiteci ancora per qualche riga e poi riprendetevi dallo stupore. Ripetiamo: Agnelli pagherà meno di Rossi.
Succede che chiunque abbia un’azione quotata in Borsa, dal primo di luglio dovrà pagare il 26% sull’eventuale dividendo che il titolo gli garantirà. I cassettisti, cioè i risparmiatori che comprano un’azione e la mettono nel cassetto aspettando le cedole, saranno i più penalizzati. Proprio nel momento in cui ci potrebbe essere più attenzione nei confronti del mercato azionario. Ma di ciò ne parleremo tra poco. Perfetto. Ma cosa succede alla famiglia Agnelli? Ebbene, chiunque abbia una partecipazione qualificata (cioè superiore al 20 per cento) pagherà una percentuale inferiore sui dividendi della società. Gli Agnelli sulle Fiat, o, se preferite, i Berlusconi sui titoli Mediaset, pagheranno meno del 26%, e precisamente il 21. Il legislatore ha infatti previsto che la tassa del «riccone» non si applichi sul 100% del monte dividendi, ma sulla sua metà. E che si inserisca questo dividendo rettificato nella propria dichiarazione dei redditi, e dunque si sottoponga all’aliquota Irpef, che per il riccone si suppone massima e al 43 per cento.
Su 100 milioni di dividendi incassati, l’azionista di riferimento della Società «X» paga circa 21 milioni di tassa. Il cassettista che dalla medesima società si porta a casa dividendi per mille euro, dovrà invece pagare una tassa sui dividendi di 260 euro. Dunque, in proporzione, di più.
Ma la cosa tragica è la giustificazione. Agnelli e Berlusconi pagano meno sui loro dividendi perché, nel loro caso, lo Stato riconosce che si tratta di una doppia imposizione e come tale assurda. Non si tassano due volte le stesse cose: questo lo capisce anche un bambino. A meno che non si sia dei piccoli risparmiatori, e allora in questo caso è lecito. In effetti la tassazione sui dividendi è una doppia imposizione. Il reddito di un’impresa viene infatti prima colpito dall’Ires (27%) e poi distribuito agli azionisti. Che, dunque, si trovano in mano i frutti di un’impresa già tassati. Al grande azionista è permesso di tenerne conto, al piccolo azionista no.
Ma la trappola sulla tassazione delle rendite finanziarie non finisce qua. Il numero uno della Casse previdenziali, Andrea Camporese, ha fatto un calcolo su quanto costerà loro la trovata di Renzi. Le Casse non rappresentano certo la fascia più debole della popolazione, ma i due milioni di soggetti che vi aderiscono cercano di crearsi una posizione previdenziale con i propri quattrini. Senza chiedere nulla allo Stato. Ebbene, ogni anno staccano un assegno di 400 milioni per pagare la loro tassa sulle rendite finanziarie (se non è questo risparmio, ci dica qualcuno cosa lo è), e grazie all’ultimo aumento toccherà loro un centinaio di milioni di esborso in più. Il che vuol dire una contestuale riduzione di circa il 12 per cento delle prestazioni previdenziali attese. Bel colpo.
E vogliamo parlare degli 800 milioni che proverranno dalla tassazione degli interessi sui conti correnti? Per 20 milioni di italiani si tratta di pochi euro l’anno di incremento. Ma che si somma ad una miriade di tasse, bolli, diritti, tobin tax e amenità del genere che falcidiano il rendimento della nostra ricchezza. Che, fino a prova contraria – dovrebbe pensare un liberale -, è meritata e non rubata. A proposito: su 2.300 miliardi di patrimonio mobiliare detenuto dalle famiglie italiane, circa l’80% è in strumenti a basso rischio: dai titoli di Stato alle polizze vita. Sapete quanto rendono mediamente oggi al lordo di tutto? Tra il 2 e il 2,5% l’anno. Basti pensare che un Btp a cinque anni frutta l’1,7% lordo. Su rendimenti così polverizzati, anche una piccola tassa annulla ogni ritorno di capitale.
La destra storica di Quintino Sella (la cui scrivania è quella di Padoan) cadde sul macinato, la sinistra storicamente è più furba e intesta una tassa ridicola ai cattivoni della finanza. Ma prima o poi li scoprono.

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