Roma incorona Cairo, ma Piazza Affari ha la puzza sotto al naso.

Tutta la Roma che conta, due sere fa, era al premio Guido Carli, che ogni anno, con successo, organizza Romana Liuzzo. Da Milano è sceso per l’occasione anche il professor Bazoli, presidente onorario di Banca Intesa.
E poi la mattina via, con il primo volo Alitalia, subito di ritorno a Milano. La vera star, quest’anno, è stato Urbano Cairo. Tutti intorno a lui, con frasi del tipo: «Ti ricordi, ci siamo conosciuti…» o anche peggio «ti trovo in forma». Più si avvicina la sua offerta sul Corriere della Sera e più gli «annusatori del successo» si stringono al loro nuovo condottiero.

Se Roma funziona così, a Milano la musica è un’altra. Il salotto buono ancora non ci può credere che Cairo, quello che fu l’assistente del Cav, quello che fa i giornaletti ad un euro (ma ne vende milioni di copie), che si guida da solo la sua Audi blu e che si mangia solitario un tramezzino da Leonardo, possa entrare dal portone principale di Via Solferino (che intanto si sono venduti). Come in tutti i club dei nouveaux riches anche quello del capitalismo milanese mal sopporta, quasi antropologicamente, chi è più smart.

Perché in fondo la storia della Rcs e dell’offerta di Cairo è solo l’ultima serie di fallimenti del nostro sistema di borghesia cosiddetta «illuminata». C’è una bella preda, lì accucciata e ferita, pronta per essere salvata, ma nessuno fa la prima mossa: mancano i capitali, forse, ma le idee soprattutto. Fantasie? Pensate alla Parmalat, quella del dopo Bondi. Era ferma con un cartello appeso con su scritto «vendesi»: nessun capitalista italiano si è fatto vivo. Poi è arrivata la zampata dei francesi di Lactalis e si sono portati tutto il boccone a casa. I soci, per fare un esempio, della ligure cooperativa Valpolcevera non sanno ora a chi piazzare i loro 60 quintali di latte di produzione al giorno, che prima vendevano a Parmalat, perché i nuovi azionisti vogliono criteri qualitativi omogenei. Ma il punto è che il sistema capitalistico italiano si è sciolto, non ha colto l’occasione, e oggi in tanti si mangiano le mani.

Il gruppo Cairo sta percorrendo lo stesso percorso. Come loro (ma a differenza degli attuali soci) conosce bene il settore in cui investe, ma a differenza dei francesi è ben radicato nel nostro tessuto economico. Non si tratta di nazionalismo, ma di realismo. Ci fa così ribrezzo che a gestire un gruppo editoriale sia uno del campo e che per di più abbia il suo quartier generale a Milano invece che a Parigi? Ovviamente dipende da come lo saprà gestire, ma sulla carta dovremmo tutti essere compiaciuti dalla sua proposta.
Taluni degli attuali azionisti in modo schizzinoso si lamentano del fatto che non abbia fatto un’offerta sulla totalità del capitale, ma che si accontenti del solo 50 per cento della Rcs. Vedremo se l’offerta finale sarà in effetti così. Ma a questa obiezione hanno già indirettamente risposto proprio i giornalisti del Corrierone. Accusano la passata dirigenza di aver comprato (e lo hanno scritto in un’inchiesta pubblicata sul loro giornale) la spagnola Recoletos rilevando l’intero capitale e non il 51 che sarebbe bastato per il controllo. Da quell’operazione totalitaria, ricordano i cronisti del Corriere, derivò l’enorme debito che sta schiacciando Via Solferino. Buon punto. Cairo non ha evidentemente intenzione di commettere lo stesso errore fatto dai vertici Rcs.

Vi è un’ulteriore obiezione che alcuni degli attuali soci del Corriere muovono all’offerta di Cairo e cioè che la stessa non preveda la fusione tra le due società una volta terminata l’operazione. Vedremo anche su questo dettaglio se il proprietario del Toro non cambierà qualcosa nella sua offerta finale. Ma anche qui c’è da sganasciarsi dalle risate. Il salottino milanese ha controllato le sue società e le rare acquisizioni che ha fatto, con modelli di governance societaria fatte da scatole dentro scatole, da percentuali di controllo ridicole, da scambi di capitale sotto le soglie che avrebbero reso obbligatoria l’Opa. Ma di che stiamo parlando?

Stiamo parlando di un gruppo di soci che per anni non ha saputo gestire degnamente la governance della Rcs, ne ha bruciato il patrimonio in modo sconsiderato e che oggi scopre di avere un gioiello solo perché qualcun altro glielo vuole comprare. Ci potevano pensare prima. È incredibile, ma ancora una volta (e qui non siamo mai stati teneri con Gianni Bazoli) il professore bresciano più che un «arzillo vecchietto» ha dimostrato di essere il più giovane tutti. Un arzillo giovanotto che ha pensato a Cairo per fare uscire il Corriere dall’impasse. E quanto ci secca ammetterlo.

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