L’Economist, il settimanale inglese che ha condotto una decisa battaglia contro Brexit, nel suo editoriale di ieri ha scritto che l’uscita dall’Unione europea è figlia della “rabbia”. Sai che analisi.

L’Economist, il settimanale inglese che ha condotto una decisa battaglia contro Brexit, nel suo editoriale di ieri ha scritto che l’uscita dall’Unione europea è figlia della «rabbia».
Sai che analisi. La rabbia sarebbe però giustificata poiché i fautori della globalizzazione, compreso lo stesso Economist, dovrebbero ammettere che i tecnocrati hanno commesso degli errori e i cittadini ne hanno pagato il prezzo. Fischia, che intuizione. Il liberalismo deve riprendere terreno, aggiungono i fini editorialisti. L’immigrazione pone delle questioni importanti, sostengono all’Economist, posto che la totale libertà di movimento europea è un’anomalia. Si tratta di uno di quegli editoriali che non faranno la storia, ma nemmeno la cronaca. Un tempo, quando si parlava di Economist (e Financial Times) si doveva per forza aggiungere l’aggettivo «autorevole». Oggi si può solo dire: il venduto. Nel senso che il settimanale è riuscito, caso più unico che raro, a guadagnare copie. Anche grazie, c’è da dire, alla crescita di una classe media asiatica, che parla inglese, e che rappresenta un ottimo bacino di nuovi lettori. Ben per loro. La domanda che ci poniamo è semplice? Come è possibile che Economist e Financial Times abbiano «toppato» in modo così clamoroso nell’interpretare il mondo che avevano sotto le proprie redazioni? Hanno voluto a tutti i costi rappresentare una classe di dirigente che sognava e auspicava un’Inghilterra aggregata o semplicemente non si sono accorti degli umori del paese? Vedete, recentemente, un signore che di Regno Unito se ne intende, Paolo Scaroni (ex ad dell’Eni e oggi vicepresidente di Rotschild) diceva: «Comunque vada a finire Brexit le cose non saranno più come prima. È come una coppia in cui la moglie dice al marito che vuole trenta giorni per pensare se è opportuno separarsi. Dopo un mese, quale sia stata la sua scelta, i rapporti si saranno comunque guastati». Ecco, la stampa anglosassone e quella finanziaria in particolare ha rappresentato negli ultimi anni proprio quell’establishment europeo che oggi il fondo dello stesso Economist dice che ha fatto pagare il prezzo della globalizzazione ai cittadini. Il settimanale non solo ha mal compreso il fenomeno, ma è parte, esso stesso, del problema.

Il tema del liberalismo c’è tutto. Gli inglesi ci hanno insegnato in qualche secolo di storia filosofica ed economica, che il loro liberalismo si distingue da quello rivoluzionario, francese, continentale, per il fatto che è sempre ancorato alla realtà, è pragmatico. Ebbene la globalizzazione di cui parlano gli editorialisti inglesi ha forse a che fare con le norme e le direttive europee? Negli ultimi trentanni dove erano i fini osservatori del settimanale? È un po’ ridicola la loro tardiva conversione al fallimento della tecnocrazia europea. Pur denunciandone a tratti le inefficienze, lo hanno fatto come se fossero danni collaterali di un processo più alto e irreversibile. Chi ha capito che così non era, oggi ne trae i benefici politici. Anzi si può dire che proprio i media hanno contribuito, nel loro totale scollamento della realtà, a generare quei fenomeni politici che loro stessi oggi definiscono, in modo sprezzante, populisti.

Ieri ad un incontro pubblico organizzato a Roma dai consulenti del lavoro, il numero uno di Leonardo-Finmeccanica, Moretti ha detto delle cose controcorrente sulla rottura inglese. Il gruppo ha fabbriche importanti nel Regno Unito, in quel paese ha comprato gli elicotteri di Westland. Moretti, con i suoi modi spicci e chiari, ha detto che tutta questa drammatizzazione dei media sul fenomeno, gli fa pensare più ad un loro pregiudizio, rispetto all’auspicato Remain, che ad una lucida analisi di come potrà andare il futuro. «È quasi impossibile capire oggi ha detto come si assesteranno le questioni economiche nel futuro. Ma una cosa è certa e cioè che la sterlina a questi bassi livelli, potrà dare un bel contributo all’economia inglese».

Insomma oggi è incredibile, come tutti gli osservatori (con l’eccezione di pochi realisti come Moretti e Scaroni) si rincorrono a biasimare la supposta follia della scelta popolare inglese e in pochissimi ne riconoscano le ragioni che affondano le radici nel tempo e ne interpretino anche le opportunità.

La questione per un liberale, e l’Economist di un tempo ce lo insegnava, non è lo spazio di influenza della politica, ma la libertà di fare impresa e commerciare. Il vero problema per il continente europeo non è quello di essere uniformato al controllo di Commissione, Consiglio, e Parlamento (un incubo di intrecci tra competenze politiche e burocratiche), né quello di avere una moneta comune, ma quello di gestire frontiere aperte per gli scambi. Quest’ultimo è il vero rischio che corriamo, non perdere le direttive di Junker.

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