Il padre della scuola austriaca, Menger, definiva l’economia “scienza della scelta”. E quest’ultima è fatta da miliardi di individui che si pongono di fronte a diverse opzioni, verificano ciò di cui possono privarsi e ciò di cui non possono fare a meno e decidono con un’analisi di costi e benefici che meglio si adatti ai loro personalissimi desideri e attitudini.
Insomma gli austriaci diffidano dalle relazioni puramente matematiche.

Mi è venuto in mente questo atteggiamento eterodosso verso gli economisti mainstream, proprio leggendo l’abuso che stampa®ime fanno dei modelli macroeconomici. Sono dei sofisticati software in cui si mettono molte variabili e alla fine per magia esce il numerino che cerchiamo. Per carità, a questo business predittivo lavorano migliaia di persone, tutte phd-dotate. Sono i modelli macroeconomici che stanno valutando le conseguenze della Brexit e sono sempre i modelli macroeconomici che utilizzano al Centro studi di Confindustria per capire che cosa potrebbe succedere al nostro Pil in caso di sconfitta del referendum costituzionale. Questo secondo caso è ancora più esemplificativo. Nel modellino macro bisogna inserire variabili assolutamente aleatorie: si parte dalla vittoria del “No” che rappresenta il senso dell’indagine, insomma è l’assioma. Ma poi si procede per salti mostruosi: che si vada subito ad elezioni, che dunque il presidente Mattarella sciolga le Camere e non proceda a un rimpasto, e che le elezioni vengano vinte da qualcuno che non garantisca stabilità. Tutte ipotesi da verificare. Non meno incerte le variabili meno note: a esempio la reazione del Pil a un aumento dei tassi, o la reazione stessa dei tassi alla presunta instabilità e cosucce del genere. Il punto è che i modelli macroeconomici cercano di imbrigliare i comportamenti degli individui in una massa indistinta di minus habens che si comportino come stabilito preventivamente da chi elabora i modelli medesimi. Viviamo nella dittatura dell’econometria, che non è sbagliata in sé, ma lo diventa quando presume di diventare la palla di cristallo di tutti i comportamenti umani.

Mi ha molto colpito ciò che scrive un matematico che sa divulgare come Marco Li Calzi nel suo libro La matematica dell’incertezza (Il Mulino): “Da un punto di vista filosofico, conoscenza certa e conoscenza probabile sono categorie diverse. La conoscenza certa deve avere massima attendibilità, ma non c’è ragione di pretendere che la conoscenza probabile, per quanto attendibile, sia certa. Per la teoria matematica della probabilità vale una distinzione analoga: una probabilità del 100% non garantisce la certezza che un evento si verifichi. In breve: ciò che è certo merita il 100% di probabilità, ma non viceversa. Per esempio, giacché siamo certi che nella geometria euclidea la somma degli angoli di un triangolo vale 180 gradi, diamo a questo evento una probabilità del 100%; d’altra parte, anche se la probabilità che due persone scelgano a caso frazioni diverse è il 100%, non v’ha certezza che ciò accada”. Rileggetelo bene. E ragionate sui risultati di modelli probabilistici che con tanta arroganza ci spacciano per sicuri e certi in queste ore.

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