L’uscita unilaterale degli Stati Uniti dal JCPOA (Joint Comprehensive Plan Of Action) dello scorso 9 maggio, dopo che l’accordo sul programma nucleare della Repubblica Islamica dell’Iran era stato siglato da Washington nel 2015 insieme agli altri membri del gruppo dei “5+1”, cioè i cinque Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, Francia, Inghilterra e gli stessi Stati Uniti) con l’aggiunta della Germania, ha scavato un solco tra il vecchio e il nuovo continente. Le reazioni a caldo dei leader europei alla scelta di Donald Trump lo dimostrano. Non possiamo più considerare gli Stati Uniti come protettore dell’Europa“, aveva addirittura affermato la cancelliera tedesca Angela Merkel, mentre il collega francese Macron aveva definito come deplorevole la scelta degli americani. Proteste verso la Casa Bianca sono arrivate anche dall’Unione Europea, con interventi di Juncker e Mogherini.

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Stupisce come l’Europa, che negli ultimi anni ci ha abituato ad accettare supinamente i “suggerimenti” da oltre Atlantico in termini di politica estera, come nel caso delle sanzioni alla Federazione Russa o della linea da tenere sulla Siria di Bashar Al Assad, nel caso del JCPOA abbia improvvisamente alzato la testa. Una presa di posizione così inattesa che anche gli iraniani si sono mostrati tiepidi, esprimendo diffidenza. Le motivazioni per il mantenimento dell’accordo però, al di là della retorica sulla pace e la diplomazia, sono soprattutto di natura economica. Secondo i dati forniti dalla stessa Commissione Europea, l’UE è infatti il secondo partner commerciale di Teheran, dopo gli Emirati Arabi Uniti, detenendo una quota del 15,8% del totale degli scambi. Dopo l’accordo del 2015, con la riduzione delle sanzioni internazionali, le esportazioni europee in Iran sono salite da 6 ai 10,8 miliardi di Euro del 2017, con una bilancia commerciale in positivo di 682 milioni. I settori principalmente coinvolti sono la meccanica (5,5 miliardi di export), la chimica (1,9 miliardi) e la manifattura (1 miliardo). Grazie all’accordo, già nel 2016 l’economia iraniana aveva avuto una crescita del 13,4%, da comparare con la decrescita dell’1,3% dell’anno precedente. In un quadro mediorientale di costante instabilità, l’Europa ha trovato nell’Iran un mercato con importanti prospettive.

E così, nonostante i messaggi di contrarietà della diplomazia statunitense, l’Unione Europea ha affermato oggi di essere pronta ad assistere le imprese del vecchio continente che saranno colpite dalle future sanzioni americane all’Iran. Non solo, ma domani Angela Merkel incontrerà a Sochi il presidente russo, Vladimir Putin, proprio per discutere, tra le altre cose, del JCPOA. La vicenda iraniana può ora riavvicinare Mosca e Berlino, i cui rapporti erano giunti ai minimi storici in seguito allo scoppio della crisi in Ucraina e alle conseguenti sanzioni, che hanno danneggiato soprattutto le imprese tedesche. E Berlino può a sua volta essere la testa di ponte per un rinnovamento del dialogo tra il Cremlino e Bruxelles.

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L’Unione Europea in questo momento, assediata dall’interno dalla continua crescita di movimenti populisti, ribellisti ed euroscettici (frutto anche dell’impalpabilità politica di Bruxelles) e dall’esterno dalla rinnovata prepotenza neocon statunitense dell’era Trump, si trova di fronte a un bivio: guadagnare una propria autonomia di manovra sugli scenari internazionali, facendo fruttare in positivo l’influenza dell’asse franco-tedesco e magari riaprendo il dialogo verso Mosca e i suoi partner, oppure condannarsi a rimanere, nell’immaginario collettivo, un’appendice geopolitica dell’anglosfera, utile sul continente solo a conservare lo status quo del neomercantilismo di Berlino. Se l’Europa vuole dimostrare di essere qualcosa di più che una conventicola monetaria dedita al culto dell’austerità, la difesa dell’accordo sul nucleare iraniano, nell’interesse dei cittadini europei, può rappresentare un’occasione importante da cui partire.

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