Poutine Trump Xi PanoSe non un vero e proprio scontro, un duro contrasto diplomatico è in atto al vertice dell’Occidente. La questione del JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, di cui si è già avuto modo di raccontare su queste colonne, e i dazi che Donald Trump, seguendo il suo ormai consolidato metodo del “bastone e della carota”, ha imposto sulle importazioni di alluminio e acciaio dall’Europa, che, salvo cambiamenti dell’ultimo momento, scatteranno da dopodomanistanno alimentando le divergenze tra gli Stati Uniti e le cancellerie europee.

Il contrasto non è legato solo ad aspetti pratici, ma anche e soprattutto ideologici. Nonostante la sua parziale e progressiva normalizzazione, Trump, con la sua agenda, in parte nazional-populista e in parte neoconservatrice, ha infatti affossato o messo in secondo piano in nome di un isolazionismo che piace a quell’elettorato “red neck” o “blue collar” che lo sostiene non solo il JCPOA, ma anche immensi trattati liberoscambisti quali il TPP e il TTIP sui quali l’amministrazione USA aveva lavorato alacremente negli otto anni di era Obama, ribaltando completamente la politica del predecessore. Laddove si parlava di apertura commerciale, oggi si parla di dazi e protezionismo, dove prima si parlava di accordi globali a la page nei salotti benpensanti, oggi si parla di pragmatiche intese bilaterali ridiscusse con i singoli stati.

L’UE DI MERKEL E MACRON COSTRETTA A GUARDARE A MOSCA E PECHINO

Così, i vertici del pensiero liberal e globalista, sostenitori dei principi della pax mercatoria mondiale, oggi, perse le sfide delle elezioni presidenziali americane e della Brexit, trovano una più sicura rappresentanza nell’Europa continentale della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron. E l’Europa a trazione franco-tedesca, che è, nella situazione contingente e per un buffo paradosso del destino, l’unica paladina affidabile di quel mondialismo politico partorito dalla cultura anglosassone, sebbene sempre inserita in un contesto di subalternità geopolitica rispetto alla Casa Bianca, si trova costretta a volgere il suo sguardo a Oriente. Alla Russia di Putin e alla Cina di Xi Jinping. Paesi spesso dipinti caricaturalmente dai media mainstream occidentali addirittura come nemici del cosiddetto “mondo libero”, che oggi però acquistano una rilevanza strategica per consentire all’Unione Europea una maggiore libertà di manovra rispetto alle imprevedibili scelte di “The Donald“.

Il 18 maggio scorso Angela Merkel ha incontrato a Sochi, in Russia, Vladimir Putin. I risultati del meeting sono presto stati resi noti. I due leaders hanno infatti confermato il loro supporto, oltre che all’accordo sull’Iran, anche al gasdotto North Stream 2, sul baltico, che trasporterà il gas russo nel cuore dell’Europa. Trump aveva indicato proprio in questo progetto il “prezzo” da pagare per gli europei per fermare i dazi americani ai Paesi UE. La questione, per gli USA, è anche commerciale. North Stream 2 è infatti destinato a fornire agli europei e soprattutto ai tedeschi gas a un prezzo tra il 25% e il 20% inferiore rispetto allo shale gas di esportazione americana

Qualche giorno più tardi, il 24 maggio, la cancelliera ha incontrato anche Xi Jinping a Pechino. Obiettivo, oltre al solito nucleare iraniano, quello di riequilibrare la bilancia commerciale tra Repubblica Popolare Cinese e Germania, entrambe nel mirino dei dazi statunitensi. Nel mentre il presidente francese Macron ha seguito la collega tedesca e ha incontrato a sua volta Putin. Segnali precisi, indirizzati verso la Casa Bianca: con le imposizioni unilaterali di Trump, l’Europa si sente libera di rivedere i propri rapporti con potenze rivali degli Stati Uniti o sul piano economico o sul piano geopolitico.

PER I PAESI EURASIATICI SI TRATTA DI REALPOLITIK. PERMANGONO GLI OSTACOLI

È evidente tuttavia che le rivendicazioni europee non abbiano quale fine ultimo un reale distacco dagli USA, che chiaramente sarebbe al momento impensabile, quanto più un desiderio di maggiore autonomia e soprattutto una necessità di rispondere agli atti di forza di Trump. Inoltre, se per Russia, Cina e Iran un avvicinamento all’Europa può essere strategico in termini di realpolitik in chiave presente e futura, anche in questo caso non bisogna dimenticare le barriere ideologiche: proprio quei circoli globalisti che, con la fine dell’era obamiana, hanno trovato nella UE il principale interlocutore, non sono possono essere certamente considerati affidabili nella parte orientale del continente eurasiatico.

Tanto più che, a ricordare a Merkel, Macron, Juncker e soci che un riavvicinamento, soprattutto con la Russia, non sarebbe esente da ostacoli sono emersi, proprio negli stessi giorni delle viste diplomatiche della Cancelliera, sia una recrudescenza della crisi ucraina che vede opposti, sul piano diplomatico, proprio Bruxelles e Mosca, sia gli esiti dell’indagine internazionale sull’incidente del Boeing della Malaysian Airlines abbattuto nel 2014 sui cieli dell’Ucraina, che hanno incriminato, nonostante le numerose contraddizioni, la contraerea russa quale responsabile del disastro. Quasi un monito delle difficoltà da superare. Per non dimenticare la questione siriana.

GLOBALISTI IN RITIRATA ANCHE IN EUROPA TRA SPINTE SOVRANISTE E GOVERNI CONSERVATORI

Certo, non che, all’interno dell’Europa comunitaria, la situazione vada meglio. Oltre all’emergere di partiti populisti e sovranisti per ora minoritari, non bisogna dimenticare il rapporto critico dei vertici di Bruxelles con i governi dei Paesi del gruppo di Visegrad, guidati dall’Ungheria, e con l’Austria guidata da un centrodestra a forte connotazione conservatrice. A questi potrebbe presto aggiungersi l’Italia, destinata forse a tornare al voto in breve tempo.

Così l’UE, debole e divisa sul piano politico e guidata dalla sua minoritaria liberal elite, si trova, nel mondo avviato verso uno scenario multipolare ancora di là da venire ma che si staglia nettamente all’orizzonte, sempre più in ostaggio da un lato delle mosse di players regionali guidati da una crescente volontà di potenza e dall’altro di un alleato, gli Stati Uniti, che, conscio del suo ruolo di prima forza mondiale, all’obamismo chic ha sostituito il duro pragmatismo trumpiano.

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