1569932090-lapresse-20190917175521-30469089“Cité­-jardinistes”. Con questo termine Renè Guenon, nella sua opera “Il Teosofismo. Storia di una pseudo-religione”, indicava, negli anni Venti del XX secolo, quel milieu sostanzialmente liberal-paganeggiante (ma di un paganesimo essenzialmente sintetico e anti-tradizionale), antenato del contemporaneo ambientalismo. Non è quindi strano che certo ecologismo sia in qualche misura consustanziale all’elite mondialista e liberal-globalista. Non bisogna pertanto stupirsi se, all’attuale fenomeno Greta Thunberg, si accodano figure come il principe monegasco Pierre Casiraghi o i soliti attori di Hollywood.

Tuttavia, oltre a ben rappresentare il retroterra ideologico di circoli elitari più o meno occulti, il fenomeno Greta può aprirsi anche a ulteriori chiavi di lettura. Interessante, tra gli altri, il commento, al proposito, del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, che si è chiesto perché “Paesi in via di sviluppo (…) dovrebbero vivere in povertà e non come in Svezia. Nessuno le ha detto (a Greta, nda) che il mondo moderno è complesso e che in Africa e in molti Paesi asiatici vogliono vivere allo stesso livello di ricchezza”.

Perché, forse, il punto fondamentale di questa “moda Greta” sta nel suo essere, consapevolmente o meno, un’”arma” geopolitica non convenzionale puntata contro quelle nazioni che, dopo aver inseguito l’Occidente per decenni, oggi stanno crescendo, dal punto di vista industriale ed economico, o sono cresciute, candidandosi a divenire una minaccia per l’egemonia anche politica del ricco Ovest liberale.

Dati della BP Statistical Review of Energy 2018 alla mano, è curioso, a tal proposito, andare a vedere quali siano i paesi che fanno maggior ricorso alle fonti di energia tradizionali, come il petrolio. E cioè, per gli attivisti seguaci della Thunberg, i “cattivi”. Ebbene a livello continentale è interessante notare come sia l’Asia a trainare i consumi, con oltre il 35% dell’utilizzo globale di “oro nero”. Di questa quota più di un terzo è a carico della Cina, il principale avversario economico (e ormai non solo) dell’Occidente. Il Nord America si ferma invece al 24%. Tra i paesi produttori, lo stesso Nord America pesa invece per il 20,1%, mentre Russia ed Eurasia contano il 14,3%, il Medio Oriente il 31,6% e l’Africa 8%.

Paesi, quelli eurasiatici, centro-asiatici, mediorientali o africani, che peraltro senza le materie prime vedrebbero quasi annientata la propria economia, spesso scarsamente diversificata.  È pertanto abbastanza chiaro che, in uno scenario di questo tipo, se da domani, per assurdo, si smettesse di produrre e consumare utilizzando fonti energetiche “fossili”, come desiderano gli ecologisti “alla Greta”, i primi a rimetterci non sarebbero stati già sviluppati e fortemente terziarizzati, come gli USA o le nazioni europee, che pure fagocitano notevoli quantità di commodities energetiche tradizionali, ma proprio queste realtà emergenti. Per non parlare di quelle che, sullo sviluppo economico basato sulla produzione industriale, hanno costruito la propria rinascita e ascesa. La Cina, ovviamente, su tutte.

E, del resto, quando un fenomeno culturale diventa globale e viene così ardentemente supportato dal sistema mediatico, come nel caso di Greta Thunberg, è sempre opportuno porsi, prima di chiedersi se quanto proposto e suggerito sia giusto o sbagliato, un antico ma sempre rivelante quesito latino: “Cui prodest?”.

Già, a chi conviene?

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