Pochi giorni fa, il 9 novembre, si è celebrato il trentennale della caduta del Muro di Berlino. Ma il 2019 è anche l’anno in cui cade il 70esimo anniversario dalla fondazione della NATO. Un’alleanza militare nata, secondo le letture più tradizionali, per contrastare il blocco sovietico ma che, appunto, trent’anni dopo il disfacimento di quest’ultimo, è ancora ben presente e salda in Europa. Chi qui scrive ne ha allora approfittato per scambiare due chiacchiere con Roberto Motta Sosa, saggista, studioso di storia delle relazioni internazionali, membro d1384001863-muro-berlino-0el gruppo di analisti di “Geopolitica.info”, portale del Centro studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali.

Dunque davvero la NATO, come vuole una vulgata ricorrente, nacque esclusivamente in funzione antisovietica? O le sue origini risalgono a momenti e finalità sancite in precedenza?

“A uno sguardo retrospettivo che voglia considerare le origini della NATO – spiega Motta Sosa – sembrano offrirsi due letture, peraltro in parte complementari. La prima, rintracciandone gli antecedenti nel Trattato di Dunkirk siglato tra Regno Unito e Francia il 4 marzo 1947, inscrive gli eventi che tennero a battesimo l’Alleanza Atlantica negli anni immediatamente seguenti la fine del Secondo conflitto mondiale. Richiamandosi al concetto di ‘sicurezza collettiva’, quel trattato era espressamente rivolto contro un ritorno della minaccia tedesca e concepito da francesi ed inglesi come potenzialmente estendibile ad altre potenze. Alcuni Stati europei centro-orientali, inclusi nell’orbita sovietica, mostrarono interesse ad aderirvi ma, come illustrato dal ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin in un discorso ai Comuni il 22 gennaio 1948, furono dissuasi da Mosca. Si può ritenere che Stalin e Molotov avessero fiutato l’ambiguità di un trattato che, fungendo da ‘cavallo di Troia’, avrebbe potuto sottrarre i Paesi dell’Est all’influenza sovietica. Bevin aggiunse sibillino che la Gran Bretagna fosse ancora consapevole di dovere giocare un ruolo chiave nel prevenire un nuovo conflitto in Occidente sia nel caso la minaccia dovesse provenire (nuovamente) dalla Germania o da altrove (‘elsewhere’). È superfluo aggiungere che, con quella formula, Bevin si riferisse, in ultima istanza, proprio all’URSS, la quale dopo il ’45 aveva accelerato il processo di consolidamento della propria sfera d’influenza in Europa centro-orientale. Bevin espresse anche l’auspicio che i contenuti del Tratto di Dunkirk fossero estesi al Benelux. Così fu infatti, con la firma, il 17 marzo ’48, del Patto di Bruxelles. Dal canto suo, il Primo Ministro belga, Paul-Henri Spaak, il 28 settembre ’48 all’ONU tenne il “discorso della paura” con cui difese il Patto di Bruxelles e denunciò apertamente l’imperialismo sovietico, aggiungendo come l’URSS fosse l’unica potenza, tra quelle vincitrici del conflitto mondiale, che avesse accresciuto i propri confini attraverso conquiste territoriali. Era stato proprio Spaak, nel gennaio ’48, ad affermare che, considerata la situazione della Germania, il progetto di un’Unione Occidentale a scopo difensivo proposto da inglesi e francesi non avrebbe avuto senso se, ‘in pectore’, non fosse stato concepito contro l’URSS e non avesse incluso gli Stati Uniti. Preceduti dai colloqui segreti intercorsi al Pentagono dal 22 marzo al 1aprile tra Canada, Stati Uniti e Regno Unito, nel luglio ’48 presero così avvio a Washington gli ‘Exploratory Talks on Security’ per la negoziazione del Trattato Nordatlantico, che venne infine firmato nella capitale statunitense il 4 aprile 1949. Queste circostanze diedero origine ad un famoso adagio attribuito a Lord Ismay (primo Segretario Generale della NATO) secondo cui l’Alleanza sarebbe nata per tenere ‘fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi’. Una seconda tesi, che qui indichiamo brevemente, chiama in causa quella ‘relazione speciale’ esistente tra le due sponde anglosassoni dell’Atlantico che, riscontrabile a livello embrionale negli anni in cui veniva concepita ed enunciata la Dottrina Monroe, fu rinvigorita all’indomani della Prima guerra mondiale attraverso think tank creati ‘ad hoc’ quali il British Institute of International Affairs (oggi Chatham House) e il Council on Foreign Relations. All’interno di questi ‘inner circles’ sarebbero state discusse le basi su cui fondare il lungo e non sempre consensuale passaggio dall’egemonia britannica a quella statunitense. Secondo questa lettura, la nascita della NATO nel ’49 avrebbe rappresentato il suggello a tale disegno, sancendo l’inizio della ‘pax americana’”.

Una lettura, quest’ultima, certamente interessante. Poiché aprirebbe una nuova prospettiva sul significato dell’Alleanza Atlantica. Come sul fatto che, nonostante la celebre frase che il segretario di Stato USA, James Baker, rivolse a Gorbaciov il 9 febbraio 1990 (“La NATO non si espanderà ad est nemmeno di un centimetro), la sua espansione da allora è proseguita quasi inarrestabile. L’ultima novità è il possibile prossimo ingresso dell’Ucraina. Si pone dunque la questione dello scopo della NATO: difensivo o aggressivo? E quanto questo strumento, che sembra sempre di più avere lo scopo di evitare la saldatura strategica tra alcuni Paesi europei e la Federazione Russa, contrasta con i reali interessi geopolitici dell’Europa?

“L’Alleanza (al pari delle installazioni militari dei Paesi membri ad essa correlate) – prosegue l’analista – ha, sin dalle sue origini, finalità dichiaratamente difensive come del resto indicato nel Preambolo e negli articoli 1 e 2 del Trattato Nordatlantico. In quanto struttura di difesa e sicurezza collettiva ovvero regionale, nel trattato che la istituì non viene menzionato alcun nemico specifico. L’unica deroga, peraltro tutt’ora oggetto di dibattito circa i suoi aspetti giuridico-internazionali, fu rappresentata dall’operazione ‘Allied Force’ condotta nel 1999 contro la Repubblica Federale di Yugoslavia senza manifesta copertura dell’ONU e motivata sulla base del principio di ‘intervento umanitario’. Bisogna inoltre ricordare che nel corso degli anni Novanta la NATO procedette ad una sorta di trasformazione, adeguando il proprio concetto strategico e le sue strutture a compiti ‘full range’ concernenti anche missioni ‘non articolo-5′ di ‘peace support’ e ‘other crisis-response operations’. Vi è poi la situazione concernente quelle che l’Alleanza ritiene siano minacce attuali alla sicurezza connesse all’acuirsi della crisi ucraina (2014) con espresso riferimento alla postura della Federazione Russa, identificata come rischiosamente asservita. A tal proposito, nel suo discorso del 7 novembre scorso, il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, parlando da Berlino, ha ribadito che l’occupazione (definita illegale) della Crimea e la violazione (imputata alla Russia) del Trattato INF rappresentino elementi di grave turbamento dell’ordine internazionale. Dal canto suo, Mosca, partner (ma) oramai quiescente della NATO, mediante la questione della cosiddetta ‘broken promise’ continua ad eccepire la violazione di garanzie (che sarebbero state) fornite alla leadership sovietica negli anni Novanta dagli Stati Uniti in merito al non allargamento ad Est dell’Alleanza Atlantica. Sarebbe tuttavia azzardato sostenere se e quanto gli obiettivi della NATO, intesa come comunità Euro-atlantica, siano ovvero appaiano in contrasto con i singoli interessi geoeconomici dei suoi membri europei, poiché se tali impedimenti fossero comprovabili risulterebbero non conformi al principio contenuto nell’articolo 2 del Trattato Nordatlantico secondo cui ciascun Stato membro deve sforzarsi di eliminare ogni ostacolo nell’ambito delle politiche economiche internazionali favorendo la cooperazione. Si può quindi forse ritenere che, almeno rispetto alle tematiche economiche, le problematiche siano riconducibili alla dimensione delle relazioni bilaterali, piuttosto che ad una contrapposizione NATO/Russia”.

Recentemente il presidente francese Macron, tra i più ferventi sostenitori di una difesa europea, ha affermato (presto criticato dalla cancelliera tedesca Merkel) che la NATO sarebbe in stato di morte celebrale. La Francia vuole recuperare quel progetto di un’Europa “terza forza” tra USA e URSS (oggi il blocco eurasiatico) che già De Gaulle prospettava? E l’Europa può davvero “liberarsi” della NATO?

Macron – conclude Motta Sosa – si riferiva soprattutto al vecchio e ricorrente tema della difesa comune europea che il 25 giugno 2018, su impulso francese, ha assunto la forma della “Initiative européenne d’intervention” (IEI), a cui sino ad oggi hanno dichiarato di volere aderire, insieme alla Francia, dodici Stati europei membri (ad eccezione della Svezia, che non aderisce dell’Alleanza Atlantica, e della Norvegia, che non è membro UE) sia della NATO che dell’UE. L’Italia ha comunicato la sua adesione il 19 settembre scorso. Il Presidente francese ha posto due questioni in particolare: la necessità, dopo la fine della stagione bipolare, di un adeguamento dello ‘scopo sociale’ della NATO e l’idea che si possa costruire quella che egli ha definito l’’autonomie stratégique européene’, in antitesi alla visione di un’Europa progettata come ‘junior partner des Américains’. A ciò si possono verosimilmente accostare le mai sopite ambizioni francesi ovvero golliste, che Macron ha lasciato trasparire affermando che in caso di Brexit la Francia resterebbe l’unica potenza nucleare nell’UE. Quest’ultimo passaggio rischia tuttavia di entrare in contraddizione con quanto da lui stesso sostenuto circa il fatto che il lungo periodo di stabilità osservato in Europa dopo il ’45 sia stato il frutto di ‘une équation politique sans hégémonie qui [a permis] la paix’. Sembra inoltre di capire che per Macron, la ‘mort cérébral’ della NATO riguarderebbe soprattutto le modalità dell’intervento turco in Siria (definito “agression”) e i rischi connessi all’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica ossia le possibili conseguenze derivanti dall’incapacità dell’Alleanza e dei suoi membri europei di evitare che gli opposti obiettivi di Ankara e Damasco entrino militarmente in contatto nel teatro siriano. Quanto alla ‘liberazione europea dalla NATO’ nessun membro europeo sino ad oggi ha manifestato l’intenzione di uscire dall’Alleanza. Unicamente la Francia, come noto, si distaccò dal solo comando militare integrato nel 1966 rientrandovi però nel 2009. Se nessun alleato europeo ha sino ad oggi palesato ovvero formalizzato una simile istanza è plausibile ipotizzare due cose: o la NATO, a tutt’oggi, continua, tutto sommato, a rispondere alle esigenze dei suoi membri, oppure non si è ancora trovata una valida alternativa ad essa. Si consideri che il Trattato Nordatlantico contiene strumenti che potrebbero fornire una soluzione a tale dilemma. L’articolo 13 prevede infatti che, trascorsi vent’anni dalla firma del trattato, un membro possa cessare di farne parte trascorso un anno dal deposito della sua notifica di denuncia presso il governo degli Stati Uniti. L’articolo 12 contempla altresì l’eventualità che, dopo dieci anni dall’entrata in vigore del trattato, in qualsiasi momento le parti contraenti, su richiesta di una di esse, possano consultarsi per sottoporlo a revisione. Dai contenuti dell’intervista rilasciata da Macron all’’Economist’ il 7 novembre scorso sembra di potere prudentemente dedurre che l’IEI possa affiancarsi, anziché sostituirsi, alla NATO quale braccio operativo dei suoi membri europei nel teatro mediterraneo-mediorientale”.

Una questione che balza all’occhio, visto il protagonismo proprio di Macron ma anche della stessa Merkel pone la questione di chi, in ipotesi, potrebbe rappresentare in futuro la potenza egemone di un’Europa “post-NATO”. Ma la questione fondamentale, soprattutto, è se un’Europa simile sia possibile.

“Il proficuo perseguimento – conclude Motta Sosa – di una geopolitica coerente con i propri interessi nazionali è soprattutto il frutto di un efficace mix di ‘hard’ e ‘soft power’. La questione è se ciò possa avvenire anche per un agglomerato di Stati eterogenei quale è l’UE. Durante la Guerra Fredda l’Europa, perché stremata da due guerre mondiali combattute nell’arco di trent’anni, aveva delegato giocoforza buona parte del suo ‘hard power’ alla NATO ovvero ai processi decisionali facenti capo al corpo politico e militare dell’Alleanza. Piaccia o no, di fatto, per settant’anni l’’esercito comune europeo’ è stata rappresentato dalla NATO. Nei decenni, questa circostanza ha apportato dei vantaggi: dalla fine della Seconda guerra mondiale all’insorgere delle guerre jugoslave (1991) l’Europa ha vissuto una seconda ‘belle époque’, grazie anche all’ombrello fornitole dall’Alleanza Atlantica. Considerate queste premesse, porsi la questione di una leadership europea incarnata da un singolo Stato appare anacronistica, perché riproporrebbe forse lo scenario di una corsa per l’egemonia che nei primi quattro decenni del Novecento era già stata risolta chiamando in causa e accettando un egemone extraeuropeo, gli Stati Uniti. Macron, nella sua recente intervista, ha affermato di volere la Germania ‘avec nous’. Tuttavia la cancelliera e il ministro degli Esteri tedesco hanno ritenuto di censurare il giudizio del capo dell’Eliseo sulla NATO, sostanzialmente allineandosi alla “difesa d’ufficio” pronunziata da Stoltenberg. Sino ad oggi ogni residua competizione franco-tedesca è stata risolta mediante la sintesi rappresentata dalla, effettiva, ‘due diligence’ di Parigi e Berlino sui principali temi inerenti al funzionamento della comunità europea. Va da sé che mentre la Francia può oggi rivendicare un primato militare sull’antico nemico, dal canto suo, la Germania rappresenta un importante anello di congiunzione tra l’Europa occidentale e la Russia, come, ad esempio, testimoniano le questioni energetiche connesse al gasdotto Nord Stream (sgradito agli Stati Uniti). Peraltro, la storia del Novecento ha già assistito ad una alleanza europea guidata dalla Francia: nel primo dopoguerra Parigi fu patrocinatrice del sistema della Piccola Intesa, che raggruppava Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Nel 1933 tale alleanza divenne un’organizzazione internazionale con un Consiglio permanente, un Segretario e un Consiglio economico. Nata per contenere soprattutto il revisionismo ungherese, nell’agosto del ’38 quell’alleanza finì invece per stringere patti che consentirono a Budapest di riarmarsi (Accordi di Bled) esaurendosi infine nel corso di quello stesso anno a Monaco a causa della condotta delle potenze occidentali intervenute nella gestione della crisi cecoslovacca”.

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