1582708181-lapresse-20200217174432-31979154 (1)Dallo scorso 11 marzo, il Coronavirus è stato dichiarato dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) una “pandemia globale“. Così, mentre nei vari Paesi colpiti aumentano i numeri dei contagiati e dei decessi (i primi, a livello mondiale, sono ormai 156.400, i secondi 6mila), gli effetti letali del virus si fanno sentire anche sull’economia. A partire, naturalmente, dalla nazione da cui la pandemia è partita: la Cina.  Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino la produzione industriale, come riporta l’AGI, ha “segnato la contrazione più ampia degli ultimi trenta anni, segnando una flessione del 13,5% a gennaio e febbraio, mentre le vendite al dettaglio si contraggono del 20,5% su base annua nello stesso periodo. Crollano anche gli investimenti fissi, che segnano un -24,5% nello stesso periodo”. Un massacro, cui la banca centrale di Pechino ha risposto iniettando nel sistema 100 miliardi di yuan.

Nel mentre risuonano ancora le pesanti parole del portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che lo scorso 12 marzo aveva accusato su Twitter le Forze armate statunitensi di aver propagato a Wuhan il Covid-19 responsabile della pandemia in occasione dei Giochi mondiali militari tenutisi dal 18 al 24 ottobre 2019. “A quando risale il paziente zero negli Stati Uniti? Quante persone sono infette, e in quali strutture ospedaliere? Potrebbero essere state le forze armate Usa a portare l’epidemia a Wuhan. Siate trasparenti, pubblicate i vostri dati! Ci dovete una spiegazione“, aveva scritto il portavoce cinese. Il funzionario governativo aveva anche postato sul social, a supporto della sua teoria, un video in cui Robert Redfield, direttore dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), affermava al Congresso che alcune morti per influenza in territorio statunitense fossero da attribuire in realtà al Coronavirus, senza specificare i riferimenti temporali.

La tesi dell’origine americana è stata sostenuta anche (e in maniera più esplicita) da un altro Paese duramente colpito dall’epidemia: l’Iran. Che, come l’Italia, è uno dei terminali strategici di quella “Nuova via della seta” che rappresenta il progetto egemonico più importante di Pechino. Non a caso su Epoch Times, organo di informazione anglofilo, la firma del Guardian James Gorrie nota che “La pandemia di Covid-19 viaggia lungo la Nuova Via della Seta”.  Gorrie scrive che: “i Paesi che hanno stabilito un partenariato sia politico che commerciale sembrano essere quelli dove il virus ha avuto modo di diffondersi meglio. In Medio Oriente, il partenariato strategico tra Iran e Cina ha comportato una maggiore esposizione al Covid-19, e quindi tassi d’infezione e di mortalità ben più elevati”, aggiungendo poi che “in Europa, l’Italia è un esempio simile, per una serie di diverse ragioni. In qualità di membro in difficoltà del Gruppo Europeo dei Sette (G-7), l’Italia ha visto negli investimenti diretti di Pechino la possibilità di rinnovare alcune infrastrutture necessarie per il Paese. La sua economia è stata gradualmente appesantita dall’invecchiamento della popolazione, dagli eccessivi oneri fiscali e burocratici, come anche dai livelli d’indebitamento astronomici, oltre ad essere stata paralizzata dalle divisioni politiche. er queste ragioni, l’Italia è stato il primo (e unico) Paese del G-7 ad accogliere con entusiasmo gli investimenti proposti dalla Cina per i porti di Genova e altre località, nell’ambito della Nuova Via della Seta”.

Cina, Iran e Italia: tre Paesi uniti dalla Via della Seta e dalle critiche ricevute da parte di osservatori non imparziali del campo filo-statunitense. Su tutti anche Edward Luttwak, che su La7 ha detto: “Il coronavirus è il virus della verità, dove appare espone la verità”. Quale? Eccola: “Nel caso della Cina ha esposto che c’è una dittatura comunista che sopprime la verità. In Iran ha esposto il fanatismo religioso. Nel caso dell’Italia ha esposto la scarsa capacità amministrativa“. Parole che, proferite da un analista di peso come lui, hanno un significato importante. Lo stesso Luttwak a febbraio, sempre a proposito del Coronavirus, aveva detto: “La Cina non tornerà ad essere l’unico produttore, anche perché i costi sono aumentati. Inoltre nazioni come gli Usa, ma anche Giappone o Sud Corea, andranno a velocizzare il processo (che era già iniziato) che porterà fuori dalla Cina produzioni e tecnologie. Ci saranno altre vie d’espansione e molto tornerà ad essere prodotto in casa; vedremo una globalizzazione di ritorno, ampiamente prevista, con un cambio di modello che potrà avere impatti positivi sui mercati interni, perché ci sarà una rimodulazione del mercato del lavoro mondiale e si punterà su quello interno”.

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Il logo del CSIS 

Il Coronavirus, insomma, per la gioia dei politici “sovranisti” e filo-occidentali di mezzo mondo, rischia di affossare la globalizzazione cinese e la sfida di Pechino al primato statunitense. Che dietro ci sia un complotto, come alcuni esponenti governativi di Paesi anti-imperialisti hanno affermato, o che sia un caso, poco importa. I cambiamenti ci saranno. Nel frattempo, però, giova considerare una curiosità: un think tank molto legato al deep state americano, il CSIS – Centre for strategic and international studies di Washington, proprio a ottobre dello scorso anno (il mese in cui, secondo Zhao Lijian, i soldati USA avrebbero portato il contagio a Wuhan), aveva simulato gli effetti di una pandemia globale da Coronavirus (sì, era stato usato proprio il ceppo del virus influenzale), analizzandoli “con un gruppo di una ventina di esperti di salute globale, bioscienze, sicurezza nazionale, gestione delle emergenze ed economia”. 

Altra curiosità. Leggiamo su QuiFinanza.it che “il Corriere della Sera del 6 dicembre, in un articolo a firma Giuseppe Sarcina, riportava l’allarme degli analisti di Wall Street a seguito della mossa dell’Hedge Fund Bridgewater. Il quale, in un momento in cui l’economia reale segnava dati positivi e confortanti, decise di scommettere sul crollo delle Borse nel mese di marzo. Motivo per cui Ray Dalio, il fondatore di Bridgewater, aveva versato 1,5 miliardi di dollari per sottoscrivere contratti di assicurazione (‘put options’) con l’obiettivo di proteggere, in tutto o in parte, il portafoglio di gestione: circa 150 miliardi di dollari in azioni e investimenti finanziari“.

Ora, Bridgewater è uno degli hedge fund più grandi e potenti al mondo, che gestisce 160 miliardi di dollari di asset. Da notare anche che Dalio è anche membro del consiglio del China Global Philanthropy Institute. Suo figlio, Matt, a soli 16 anni, ha istituito un ente di beneficenza chiamato China Care per aiutare gli orfani con bisogni speciali.

Curiose coincidenze? Sicuramente. Ma senza dubbio inquietanti…

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