Hungarian Prime Minister Orban attends a foundation stone laying ceremony for a new division of the Knorr-Bremse factory in KecskemetDunque l’Europa ha scelto. Ha scelto, evidentemente, di privarsi dell’Ungheria di Viktor Orban. Un premier membro del Partito Popolare Europeo, fazione maggioritaria all’interno dell’emiciclo comunitario di Strasburgo, sanzionato da buona parte dei suoi stessi colleghi, oltre che, come prevedibile dalle sinistre europee. E’ stata infatti approvata oggi la risoluzione che, in base all’articolo 7 del Trattato dell’UE, chiedeva al Consiglio Europeo di “rilevare la presenza di un chiaro e grave rischio di violazione da parte dell’Ungheria dei valori fondanti l’Unione Europea“. Sono stati 448 i voti favorevoli,197 quelli contrari e 48 gli astenuti. Ora la questione passerà appunto al Consiglio, costituito da capi di Governo degli Stati membri, che potrà decretare il venir meno del diritto di voto dell’Ungheria in quella sede.

Ma che cosa ha fatto di male Orban? Per giudicarne in maniera imparziale l’operato bisogna partire dai numeri. Dai risultati ottenuti per il proprio Paese. Risultati che sono i seguenti: l’Ungheria ha ripreso a crescere in maniera stabile dal 2014, nel 2017 il PIL è cresciuto del 4% e stime di inizio anno prevedevano per il 2018 un anno molto positivo per l’economia ungherese,  che secondo il Ministero dell’Economia crescerà del 4,3%. L’Unione Europea stimava il 3,7% e l’OCSE il 3,6%. “Colpa” di sforamenti dei preziosissimi parametri dei burocrati europei? No. Il deficit lo scorso anno è stato dell’1,9% e il debito è stato pari al 74% del PIL. Debito che solo per il 25% del totale è in valuta straniera.

Si evince dunque che Orban non è un pericoloso populista, quantomeno in materia economica. Anche se le ricette per ottenere questi risultati, cioè banalmente l’incremento della spesa pubblica per i settori strategici e la loro parziale rinazionalizzazione e una riduzione incisiva del fisco, sono state l’opposto di quelle suggerite dai dogmi austero-liberisti di Bruxelles, fatti di privatizzazioni e calo della spesa sociale. E anche se nel suo secondo mandato come premier, quello iniziato nel 2010, aveva avocato al Governo la possibilità di nominare la maggioranza del consiglio monetario della banca centrale ungherese. Fatto stigmatizzato da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. E quindi, stando ai tanti “successi” dei piani di risanamento di questo genere di istituzioni nel mondo, ultimo caso la Grecia, molto probabilmente positivo.

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Dunque, è necessario chiederselo di nuovo, che cosa ha fatto di male? L’Ungheria ha imbavagliato i media indipendenti, limitato il settore accademico, ha sostituito i giudici indipendenti con giudici più vicini al regime, ha reso la vita difficile alle Ong, ha spiegato l’eurodeputata dei Verdi Judith Sargentini, relatrice della risoluzione. Eccolo il punto fondamentale. “Ha reso difficile la vita alle Ong“.

Ha, si potrebbe aggiungere, alzato il famoso “muro” al confine con la Serbia. Che della UE non è uno Stato membro. Non ancora almeno. La recinzione, è giusto spiegarlo per capire come ragiona il Governo ungherese, è stata parzialmente costruita da disoccupati retribuiti dallo Stato. Ha rifiutato inoltre, complice anche un referendum consultivo nettamente favorevole sebbene in assenza di quorum (2016), le quote di ripartizione dei migranti, ricavandone in cambio il plauso dei cittadini ungheresi che, anche quest’anno, lo hanno rieletto con il 49% dei consensi, il 5% in più rispetto alle elezioni precedenti.

Questo ha fatto Orban. Ha creato lavoro, ha ridotto la disoccupazione, ha riportato in mano al Governo eletto democraticamente le leve strategiche dell’economia, sottraendole agli interessi privati, ha difeso dai flussi migratori i confini dell’Ungheria, che sono anche in parte confini esterni dell’Unione Europea. E l’Europa, in cambio di tutto questo, lo ha sanzionato. Scegliendo, probabilmente, di imboccare la via che conduce al suicidio. Perchè, anche se è difficile che l’Ungheria, così come invece suggerito dal leader euroscettico britannico Nigel Farage, lasci a cuor leggero la UE, anche in virtù dei generosi fondi comunitari che un ruolo non secondario hanno avuto nella sua crescita, è evidente che, in un momento di difficoltà, di crisi, di progressiva disgregazione e tendenze scissioniste, di aggressione commerciale da parte della presidenza statunitense di Donald Trump, di sfiducia nelle istituzioni comunitarie, l’Europa così facendo lancia un segnale pessimo in vista del voto del prossimo maggio 2019. Così l’Europa non si salva. Anzi, così l’Europa, guidata da una classe dirigente cieca e sorda, si condanna a morte certa. E, a questo punto, e a maggior ragione dopo le ennesime indicazioni giunte dalle elezioni svedesi, dopo le proteste anti immigrazione di Chemnitz, dopo, insomma, la sempre più chiara evidenza del rigetto, da parte dei cittadini europei, dell’attuale linea politica dominante, lo fa per propria scelta.

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