imageA tre giorni dal sangue del Bataclan, spostarsi non è questione semplice. Riuscire a scindere la psicosi dal pericolo reale, non è questione semplice. Metti che a tre giorni dal sangue del Bataclan devi andare a Milano con un mezzo pubblico, che so un treno. Al terrore, certamente, non bisogna cedere nulla, neanche un metro; piegarsi su se stessi significherebbe offrire l’ennesimo assist ai disgraziati barbuti, soprattutto dopo che l’Europa si è sbattezzata, ha preso una botta in testa ed ha aperto le cosce al denaro, al pensiero unico, alla (dis)integrazione. E questo, gli uomini del califfo lo sanno, eccome se lo sanno.

Mai piegarsi su stessi, anche se non hai propriamente l’impressione che le cose, stavolta, vadano risolvendosi con poco. Mai piegarsi su stessi, così alle 7.00 ti trovi alla stazione Termini di Roma. Inizialmente non pensi al dramma, non credi possa coinvolgerti, falso mito tutto italiano secondo cui ciò che hai visto alla televisione difficilmente possa accadere a te. Eppure innegabilmente inizia a serpeggiarti dentro il dubbio, la voglia di guardarti intorno in cerca di una serenità comune e condivisa, una forma di reazione; ma l’unica cosa che trovi, guardandoti attorno, sono le persone spaventate che paiono fuggire verso i treni per andare via di corsa, per non stare mai troppo tempo ferme nello stesso punto, tutte insieme.

Non ti senti tranquillo, percepisci ancora una volta che anche la tua terra non è un posto sicuro. Tra gli uomini della Polfer all’interno della stazione che presidiano in coppia bagagli e viaggiatori, il controllo nominale del biglietto al varco dei binari. Un’occhiata furtiva, velocissima al tagliando e sei subito dentro al treno, vieni smistato. Nessun metaldetector al varco. Tutto troppo ‘facile’

Pochi passeggeri in carrozza fino a Firenze. Chi legge, chi dorme e chi non lo fa, inevitabilmente parla di Parigi, e non della Tour Eiffel illuminata a giorno. Oltre al personale FS, nessun agente in divisa c’è venuto a far visita in un’ora e mezza di viaggio. Non vedere forze dell’ordine faceva inevitabilmente riflettere su quanto davvero si viva in regime di sicurezza diffusa e certa, a protezione dal terrorismo, sulle loro carenze d’organico, di mezzi e di materiali di servizio.

A Firenze, cambio treno. L’ultima ora e quaranta di viaggio prima di arrivare a Milano. Anche qui c’è tensione, la senti forte, la vedi nel modo di camminare della gente, la vedi nel passo nervoso della ronda della Polizia, sotto e sopra, sotto e sopra. La leggi negli occhi delle persone che intanto sono costrette comunque ad andare avanti e a sperare che nulla succeda in Italia. Senza controlli al biglietto in stazione salgo sul treno per Milano. Nella buonafede, io, ma pur sempre nell’ ‘anonimato’. Avvicinandoti ad una delle due regioni a maggiore rischio avrei voluto essere controllato, se serviva perquisito, d’altronde se lo avessero fatto con me, il che non mi avrebbe disturbato affatto, lo avrebbero fatto con chiunque.

Il tempo di giungere al sedile e due ragazzi, sicuramente mediorientali, mi fissano intensamente. Avrei viaggiato affianco a loro. Appena arrivato una signora in fortissimo stato di agitazione, con la borsa stretta tra le mani, ringrazia il cielo del fatto che scenderà a Bologna e ad alta voce mi fa capire che quei due ragazzi erano ‘un poco strani’, fissavano con un ghigno quasi di sfida lei ed i passeggeri affianco; parlottavano tra di loro in quello che sembrava arabo, poi, uno dei due, in un italiano corretto, ponderato, colto. Mentre chiedevo se tutto fosse a posto, togliendomi il giacchetto, dai due ragazzi, una pioggia di battute allusive sull’Italia e sugli italiani, sulla paura che ‘loro’, gli stranieri, potessero rubarci la borsa e la tranquillità.

Qualche minuto dopo, un’altra signora, con il posto assegnato accanto a me. L’avevo vista transitare poco prima verso il suo spazio, fissarlo, lasciare il bagaglio e andarsene. Il treno parte. La vedo tornare, riprendersi il bagaglio e rifiutare il mio invito a sedersi, tanto la sua ingombrante valigia beige non mi dava alcun fastidio. Mi fissa, in evidente stato di agitazione anche lei, prende la sua borsa di corsa dal sedile affianco a me e preoccupatissima mi dice “non c’è problema, si figuri. Meglio non stare qui, non viaggerò in questo posto, preferisco stare in piedi da un’altra parte”. Gli sguardi di quei due ragazzi, con i loro borsoni a fianco, intanto, si facevano sempre più insistenti verso di me, unico rimasto. Il loro chiacchierare nella loro lingua per poi ridere nervosamente fissandomi non era per niente rassicurante. Cominciavo davvero a sentirmi in pericolo, in qualche modo. Intorno a loro l’indifferenza degli altri viaggiatori. Non sapevo davvero cosa fare e se fare qualcosa. Forse era solo una maledetta psicosi, forse. Decido di passare il resto del viaggio in piedi, qualche carrozza più avanti, come se potesse servire ad evitare il peggio, qualora fosse sopraggiunto. Un palliativo. Alzandomi e scorrendo il vagone, avevo notato che il controllore delle Fs, nel giro di controllo biglietti, li aveva saltati, aveva saltato proprio loro.

Nessun uomo delle forze dell’ordine a bordo, per tutto quell’ assurdo viaggio angoscioso, passato a rassicurarmi, caffè dopo caffè, nel vagone bar del treno.

Giunto a Milano, l’aria era decisamente più pesante. Anche qui forze dell’ordine all’esterno e qualche uomo in divisa della Polfer internamente in stazione ma non riuscivo a sentire, anche in quel luogo, in quel passaggio, un senso di reale sicurezza, a percepire che la situazione fosse sotto controllo, qualora fosse sfuggita di mano.

Un viaggio, umanissimo, nella psicosi o gli effetti concreti del terrorismo, con la sua imprevedibilità estrema, della paura che chiama la paura, in un clima di pericolo reale? Giungeva, nel frattempo, la notizia che uno dei terroristi di Parigi era riuscito a sfuggire e che forse era al confine con l’Italia.

Ma sì, spostarsi con i mezzi pubblici sarà sicuramente sicuro…

Per una volta, rispetto al mio solito, senza troppi sofismi, sovrastrutture ed analisi. Con sincerità ed umanità, con quell’umanità istintiva, con quella spontanea normalità che nei meandri della faciloneria morale, del buonismo militante, rischia di trasformarsi in fretta, ed in maniera totalmente errata, in tutt’altro.

Sulla strada di ritorno verso una urgente dimensione dignitosa, arriva una mail in redazione. A scrivere è C.G.; l’oggetto della mail è eloquente: l’Italia sicura, ma dove!?.

“Mi chiamo C., sono una donna che nemmeno un’ora fa è salita insieme al proprio compagno su un treno alla stazione Napoli centrale direzione Torino. Giunti con anticipo, abbiamo notato due uomini di fronte a noi che sono entrati come due perfetti estranei a bordo. Nulla li accomunava […] ora si parte, torniamo dai nostri figli. La paura non può condizionare l’esistenza. Poi, a viaggio avviato, ecco il controllo del biglietto: i due passeggeri non solo hanno finto di non conoscersi ma hanno anche presentato lo stesso biglietto falso e per di più non hanno fornito i documenti: ne erano sprovvisti. Hanno preso i loro grossi borsoni ed hanno seguito la gentile signorina che li ha invitati a scendere a Roma. Attoniti ci siamo chiesti tutti qui dentro: coloro che invece sono preposti al controllo dove erano prima della partenza? Su una cosa i media hanno ragione, l’Italia non è sotto attacco poiché se lo fosse, con la libera circolazione dei ‘senza identità’, saremmo già tutti morti. […] In piena allerta ci si può imbarcare senza documenti, con un biglietto fasullo e un bagaglio pieno di chissà che cosa. Siamo arrivati a Roma Termini…sono scesi, ad attenderli nemmeno la Polfer! Speriamo che questo viaggio si concluda al più presto”

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