La destra cos’ha? Dove sta? Come si svolge e dove? Una riesumazione, una danza, una penitenza? Uno status symbol, un modo per dire tutto e non dire niente? Una forzatura, una direzione o una visione individuale, una chiave d’interpretazione possibile della modernità? E ancora, un intimo dialogo, una speranza, un augurio o uno scassamodernità? Una delusione, un’invenzione?

Forse, è un modo di dire. Stare a destra. Fra quarant’anni, ormai canuti, ingobbiti e scontrosissimi, lo diremo ai nostri nipoti per dire “Volevi fare tutto e non ha combinato niente, citrullo!”, oppure posto dalla storia a designare una persona buona di cuore con uno spiccato senso degli affari, un mix letale che non la porterà a non combinare un tubo nella vita. Perché la destra io ce la vedo su un dizionario, sinonimo di qualcosa. Stare a destra? Cosa significa, all’indomani dell’ennesimo testa e testa che anticipa le elezioni romane. Cosa significa per un missino, per un postfascista? Per un conservatore o per un moderato?

Cos’è la destra? Un amore finito, un amore infinito, un libro su Beppe Niccolai, la piazza del popolo piena di Almirante, lo scioglimento di Alleanza Nazionale o Guido Bertolaso che parla di Rom e di Giachetti? Un veto, un voto? Distanze che si allargano e poi si ricolmano, con poco.

Forse la destra è un ripetersi di cognomi, o forse è nausea, una nausea profonda, per single. Una stantia sensazione di nausea che ti pianta sul divano, da solo e ti fa stare malissimo. Ti fa incazzare stando fermo e ti costringe a pensare. A ricordare e a soffrire, sempre solo. Inutile chiamare l’amico di sempre, quello di destra come te: sarebbe solo farsi del male, ancor più, ricordando i tempi che furono, quando destra qualcosa significava, dalla T di tradizione alla C di comunità. Nausea infinita.

E a destra, oggi, che si sta a fare? Ci si sta per ricordare, per rinnovare, per votare? Per ricominciare, per mantenere, per pulirsi la coscienza, per scaricarsi la responsabilità sociale? Per non passare dalla primarie, per non decidere niente, per militare a targhe alterne – quando lo dice “lui” e sicuramente prima delle elezioni -, per truppacammellizzarsi più di prima e portare l’acqua con gli orecchi ed ormai con tutto il corpo, all’ora x e nel luogo prestabilito?

E destra cosa rappresenta oggi? La connessione col territorio, la politica strillata dell’occasione, twittare e ritwittare, da condividere e ricondividere all’infinito, anche detta takeaway – scegli la polemica e gustala dove vuoi -? Il culto del capo o il capo del culto? Comunità di uomini ed idee o comunità di recupero? Posti a sedere in prima fila o sedere, sempre, per terra? Nomi da togliere nel simbolo (Alfano il mistificatore docet).

Chi è destra? L’assicuratore di Busto Arsizio che ogni anno fa la tessera e va ai banchetti quando piove, la domenica mattina, sotto quei portici in cui passeranno quattordici persone, contate, in una giornata, o quelli della generazione Atreju, quelli della generazione Msi, quelli della generazione anni di piombo? Forse quelli della generazione Almirante? Quella generazione, quelli della sezione, ma quando toccherà a quelli di questa generazione, sempre troppo giovani per cominciare, sempre troppo vecchi per essere giovani?

Di chi è la destra? Dei forzuti, dei coerenti o degli scaldatori di minestre? Dei Verdini democristi, dei Berlusconi che non mangiano più la carne, degli Storace alla carica, delle Meloni col caschetto della Protezione Civile, dei Marchini bellocci, dei Bertolaso deliranti, dei Salvini ruspanti o dei Le Pen dipendenti? Di chi è la destra? Dei camerati, dei carenati, dei pirati, dei carcerati, dei moderati, dei diseredati o degli innamorati?

Cos’è destra? Un compito per casa, uno scarico di responsabilità, un annuncio? Un modus operandi, per andare necessariamente “contro”?

Una volta un tizio, con una vistosa cicatrice degli anni ’70, mi disse che destra significa amico. Per ora sembra solo un apostrofo rosa tra le parole “non capisco”.