Gli uomini inseguiranno i Pokemon fino a cadere nel baratro della Civiltà e della decenza.
Prima si correva dietro al nemico, dietro alla gonna della più bella del paese, per rapirla e portarla all’altare, dietro ai treni da non perdere. Si correva tra le braccia della madre al ritorno dalla Naja. 365 giorni al termine. Sentito il fischio scappare dalle bombe. Sentito lo sparo correre via dalle pallottole. Sentito il boato correre fuori dalla casa di pietre e sabbia. Sentita la sirena correre lontano, dietro l’angolo. Una corsa con e contro il tempo, di generazione in generazione. Abbiamo corso tutti, nei parchi, per strada, su un ponte, con la macchina a mezzanotte, proprio come i giovanotti di oggi; abbiamo corso tutti ma mai (mai) dietro ad un esserino virtuale che fa capo ad una multinazionale giapponese per sentirci parte di una collettività. Una robetta che non esiste, non sussiste.
Un’avventura da inseguire ce l’abbiamo avuta tutti ma mai dietro ad uno schermo quando dovevamo essere in guerra contro la decadenza, contro il terrorismo, contro le tasse, quando avremmo dovuto difendere i confini della decenza e della nostra terra, invece di confondere la realtà con la virtualità, l’unico rituale collettivo, mentre la comunità si plasma sui profili di un social, cadendo in un loop eterno, in una ritualità ben più misera e barbara di ogni Baccanale. Mai con i gessetti colorati, mai solo con una canzone di John Lennon, mai solo con un post in un mondo finto che permette di non avere coraggio nell’essere ma nell’apparire come si vuole essere alle 22.30 in mutande a casa propria dietro allo schermo con la barba sfatta. Un’avventura da inseguire ce l’abbiamo avuta tutti. Chi con la chitarra, il più fricchettone del gruppo che si faceva l’Europa in autostop, chi con la laurea e la polo Fred Perry, per il più duro della cricca, quello che schifava le Camel e le canne. Chi all’estero, chi a casa. Chi con una bandiera, chi contro il sistema. Chi a fare il volontario, chi a cercare lavoro subito dopo la scuola che spesso, la scuola, neanche la finiva proprio. Chi s’andava a prendere l’aranciata corretta Gin al bar mentre cantavano le cicale, chi si prendeva i calci nel culo da quell’uomo di suo padre perché al cantiere non c’era; era con quell’altro a correggere l’aranciata al bar dei malfamati, costretti nella riserva della loro pochezza, a bere e a schifare il sole di fuori. Chi in sezione, chi in palestra. Chi in ospedale, chi in Chiesa, chi pro e chi contro.
Abbiamo corso tutti, abbiamo avuto tutti un’avventura. La durezza della vita, in qualche modo, c’ha segnati tutti; quella dell’epoca, c’ha fatto dimenticare presto l’adolescenza, c’ha fatto crescere di corsa. Per sopravvivere. Più si acuiva la condizione del nostro essere vivi e individuali, bestie in società in una società bestiale, più abbiamo sognato un lavoro, più non ne abbiamo trovato, più abbiamo sognato un mutuo, più un direttore di banca ci ha cacciato dal suo ufficio; più volevamo avere un figlio, più abbiamo dovuto fare i conti; più abbiamo cercato la stabilità, più c’è piombato addosso lo squilibro delle manovre, delle riforme, delle leggi giaccaecravatta della grande Unione, quella che ci avrebbe salvato tutti e invece ci svuotava d’umanità come un bignè stretto tra i palmi di un energumeno; più abbiamo sofferto a casa, con un lavoro partime e la pensione statale di nostro padre, più ci si è indurita la pelle, il carattere e abbiamo dovuto abbandonare l’eterno infantilismo che ci avrebbe accompagnato, fosse per noi, sognando e danzando allegri verso la fine.
Più ci si annoia più ci si accontenta di una dose d’evasione, di blocchi di entusiasmo, di movimento e adrenalina passeggeri. Passatempo, altro che interpretazione della realtà. Non ci si trova più nei confini di un confronto reale, di un’identità. Di orpelli, basta scegliere nella vasta gamma che offre la modernissima modernità. Web, videogiochi, foreign fighter. Cambia sesso, cambia passo, cambia Dio. Oppure corri in città, libero, in una mandria di bestie, dietro ad un Pokemon. Per costruire la propria personalità a pezzi nella virtualità. Amen. Per dirla con l’amico e sociologo Nuccio Bovalino: “Questo agire nel mondo virtuale illudendosi di essere protagonisti di un’avventura, è un modo di sublimare l’impotenza che caratterizza l’uomo nella sua quotidianità. Ecco così che il giovane occidentale, che in questo momento dovrebbe avere uno scatto di orgoglio, identitario, che lo possa portare a una rivalsa, sublima quest’impotenza e capacità di accettare la situazione, rifugiandosi e rimanendo inghiottito in un mondo ludico, consumistico e virtuale nel quale ha trovato rifugio”.

Non disturbateli. Sarà l’Apocalisse a svegliarli. Sia chiaro, chiunque, anziché cercare animaletti virtuali piuttosto che essere virtuoso, può anche giocare a lanciarsi secchiate di merda. Non è nel fine ma nel modo il grande problema. Sia chiaro: Non è il gioco di per sé. Per me ci si può anche tirare la peperonata calda. Pokémon Go è il più bel passatempo del mondo, altro che suonare la ghironda o la chitarra, altro che leggere (i dati Istat dicono che i migliori lettori hanno dagli 11 ai 19, il resto in coma). Ci si sbatta la ciolla – a talpunto – del fatto che non è il giochino ma è la modalità decadente, il mood con cui nel tempo sta marcendo la Civiltà dei je suis. Oggi Pokémon Go, domani la peperonata calda. Per quel che mi riguarda si può già iniziare a tagliare i peperoni. 

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