L’Italia è un museo delle cere, la fotografia di un disastro. Un museo vecchio, con le sedie sparse in mezzo alla sala, coi muri crepati, tanta polvere e poca luce. Al centro una tv, sempre accesa che manda solo talk show. Di notte e di giorno. E di quegli italiani che guardano il tempo passare, dai vetri di quelle stanze, guardano fuori, la strada, il tempo, il loro, per lamentarsi di tutto e piangersi addosso, di quanto si stava meglio prima. Un album dei luoghi comuni, dei ricordi di un tempo, tassidermisti del Bello di ieri, esperti di voyeurismo.
Guardiamo e spiamo chi fa ciò che noi vorremmo fare. E poi ci eccitiamo, godiamo e ci sentiamo liberi.
Vorremmo tornare a tirare le monetine fuori dall’hotel Raphael, ma desideriamo la Le Pen d’altri. Vorremmo una nuova Mani Pulite, un nuovo processo, e intanto spiamo, e osanniamo oltre misura, gli USA di Trump. Vorremmo tornare a mettere la mano sul collo del potere, sentirlo vicino, non più a Bruxelles, sovranazionale. Risentirci sovrani anche calpestando l’asfalto e non solo battendo sui tasti di un Acer o strappando la carta dalla rabbia per fare una X nelle urne, quel giorno, marcata e rimarcata, quando quel giorno arriverà. Perché prima o poi, dovrà arrivare.

Finiti i Balilla, i Mazzini, gli Enrico Mattei, gli Adriano Olivetti, i Masaniello, gli Almirante, i Berlinguer, le Fallaci, uccisi i Falcone e i Borsellino, pensionati i Montanelli, i Flaiano, spento il mito dell’italiano padrone del suo sangue, difensore della sua gente, ridimensionati i partigiani, buttati alle frasche i ragazzi del ’99 e gli obici che sparavano dal fianco della montagna, verso l’Austria, passati i carbonari, c’è la carbonara, sotto al mento, e la tv puntata in faccia. Accanto al piatto, il pianto. E lo smartphone. Acceso.
L’Italia dei poveri assoluti, con il 40% dei figli disoccupati che s’ammazzano, che non parlano coi genitori, senz’anima, guarda alla tv dei tassisti che fanno la rivoluzione a modo loro e li tifa come in un incontro di wrestilng, perchè vanno contro le guardie, che non sanno più come difendersi da chi gli dà lavoro, da chi hanno davanti, perchè vanno contro il potere. E ora, alle 20.00, mentre il padre di famiglia inforchetta la carne, stringe i denti, per riflesso, la porta alla bocca, la mastica, con lo sguardo di vetro, la mastica, la sfinisce, la trita e mentre guarda il tg, urla con la bocca piena odio incomprensibile, giacché è rabbioso come un cane schiumante e malato, mentre il figlio, schiavo di 400 euro al mese, col diritto di non avere diritti, carcerato nella cameretta di casa dei genitori, fidanzato desideroso di convivere con lei, che fino a poco prima lavora in un call center di Roma che oggi non esiste più, che li ha mandati a casa tutti e 1666, ne posta i fasti su un social.

E così accettando tutti i compromessi ambigui e schiavizzanti che la “rivoluzione”, quella vera, non si farà mai.
L’Italia è un Paese tutto matto. Dove le ribellioni partono dai sassi lanciati da un bambino all’esercito che occupa e dove la sommossa, quella vera, sanguigna, militante e aggressiva, non la fanno i giovani, i poveri e i derelitti, ma i tassisti incazzati.  Solo il tassista quando s’incazza tira una pietrata addosso ai vetri del potere. Eppure il tassista è un fratello stanco, che il sedere lo ha alzato.

Noi italiani tifiamo sempre per qualcuno che non siamo noi. Almeno noi tutti. Un popolo su chiamata.
Qualcosa non torna più. Di questo passo non tornerà mai più.

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