Simbolicamente, sinceramente…

Non annamo a cercà Maria pe’ Roma, si dice nella Capitale. O Cristo è ovunque, o non è da nessuna parte. Nell’epoca che tutto vuole relativizzare, la strada per il ritorno ai significati è la salvezza.

Esploratori, e non archeologi. Andiamo alla ricerca del significato, perché ci possa rinnovare l’origine. La battaglia non è solo nel fare il Presepe, nel farlo fare, nel tutelarlo nelle piazze, nelle scuole, ma nel rinnovarne l’essenza, soprattutto in quest’epoca disgraziata. Nutrire l’etica e l’estetica, per salvare l’origine e trasformarla in un prodotto che nel tempo parla di noi e ci rappresenta a differenza di usi e costumi, scelte politiche, economiche e sociali, che ha la forza di aderire ad ogni tempo, ma non di sciogliersi in esso, ed anzi di modificarlo: l’identità.

La suggestione da vivere è la salvezza, e la Bellezza della, e nella, salvezza, nella linearità di una Parola, di un messaggio, di un’idea, perché puntellata sulle certezze di una maggiore profondità che non rappresenti un capriccio, non diventi superstizione. Allontanandosi dalla sacralità. Uno dei maggiori pericoli odierni nella difesa di tutto ciò che sia spirituale, cristiano. “La Chiesa ha sempre dato importanza ai segni, soprattutto liturgico sacramentali, sorvegliando però che non sconfinassero in una sorta di superstizione – racconta in un’intervista Padre Pietro Messa, Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum -. Alcuni gesti furono incentivati perché ritenuti adatti per la diffusione dell’annuncio evangelico e tra questi si segnala proprio il presepio nella cui semplicità indirizza tutto alla centralità di Gesù”. L’annuncio evangelico, la parola del Vangelo, la direzione di Dio. Dio è sempre, non solo quando l’aereo sta cadendo e noi ci siamo dentro.

Serviva fondere gli occhi, il corpo, l’immagine e il suo significato originale, prima di tutto. Serviva e serve ancora.

A partire da quell’ispirazione primordiale del Presepe che nasce dal poverello di Assisi, a Greccio. Lo stesso che ha accolto tra i suoi chiunque volesse legarsi a Dio, cantando per Madonna Povertà la bellezza della non differenza se stretta dal filo aureo che cinge le anime e le porta al Signore; lo stesso Francesco che, però, impiegò la sua vita a ricostruire la casa di Dio: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”. Ecco il senso, rifonda la mia Casa. Gli disse Cristo; ed egli andò e mattone dopo mattone, ricostruì la Chiesa in rovina, donandole nuova vita, il suono ferreo delle campane che andava giù, scapicollandosi nelle colline dell’Umbria. Ed ecco a nuova esistenza per San Damiano, San Pietro alla Spira e la Porziuncola. Rinnovato il senso, sì, ma anche le fondamenta, le pietre, il portone di legno, i banchi e l’altare, cose materiali, di un’antica presenza che ritorna a vivere anche quella porzione di modernità. E diventa continuità della Casa, dell’origine.

Ecco l’eterna tangibilità della riconoscibilità, ecco la conferma, come la Cresima. Ecco la strada del ritorno, l’identità chiara e visibile. Ecco la preghiera, la rinascita.
Ecco il presepe. Anche nel 2017. Non stravolto, ma ammodernato nel suo significato nel senso con cui San Francesco lo fa nascere.

E prosegue la strada.

Ogni significato è fuso nella stessa grande origine. Così come “l’anno liturgico della Chiesa non si è sviluppato inizialmente partendo dalla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Perciò la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma è la Pasqua; la risurrezione di Cristo fonde la fede cristiana, è alla base dell’annuncio del Vangelo e fa nascere la Chiesa”, come ci ricorda Papa Benedetto XVI, tanto, quindi, ecco ricomporsi la nuova immagine del presepe, oltre a quello dei pupazzetti colorati, che unisce la famiglia in una tradizione non solo sacra. Associare concretamente l’immagine moderna del Greccio francescano, facendo, in esso, convogliare i significati perché donino celestialità, e formino la Casa. Ancora una volta. Nella Pasqua nasce la Chiesa, nella risurrezione, la comunità. Da Francesco nasce il Presepe per offrire agli occhi del corpo il senso divino, e plasmare la forma della natività. Risurrezione, nascita.

Ecco che solo con la chiarezza dell’origine e della direzione, si evita la contaminazione di Dio nei capricci degli uomini. E si sottrae dalle deviazioni storte e perverse della politica, che vuole far credere, in maniera convincente ed esclusiva, quasi fosse un editto, che Dio e la Chiesa, così a seguire tutte le loro rappresentazioni, esistono solo nella direzione della tolleranza, dell’accoglienza a senso unico, verso i migranti, mentre crescono i poveri italiani. Non è Natale se, bastardo, non metti un gommone al centro del Presepe – come a Castenaso, in provincia di Bologna. “Gesù Bambino nasce nel gommone”, titola a proposito il Resto del Carlino -, o se non tiri fuori la sofferenza di chi è fuggito per venire da noi e la rendi il centro e la priorità di ogni significato millenario, unico centro di dibattito possibile e ammesso – come il caso di Potenza, lo scorso anno, con un presepe con il barcone di profughi, la bandiera arcobaleno e Maria con un velo “islamico” -, o, ancora, se dimentichi la sofferenza dei migranti, verso cui, però, vi è ogni premura politica, ogni attenzione, velocità nell’iniziative di ospitalità, benvenuto e trasmissione di dignità.

Empatia, laicissima pietas o misericordia? Come Cristo, a senso unico. La promozione del rispetto di ogni culto, e così di ogni sua manifestazione, come il Presepe; non la sostituzione di uno verso l’altro, specie se quello sostituibile è quello che ospita, non quello che viene ospitato. 

E in quest’ultima affermazione è vero, com’è vero che la Croce di Cristo è come il the infrè, è buono qui, è buono lì. È buono ovunque, e la sua parola merita interpretazione, non deformazione, specie se farisea, politica, ideologica. E non si può prescindere, amico, cittadino, dalla parola di Dio per difendere i Cristiani sotto attacco, il valore del presepe a livello universale, nelle case, quanto nelle scuole e negli uffici.

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo 25,35-44). Così che quando queste parole di Gesù valgono per un migrante, per un Crocifisso che sparisce per fare uguaglianza, per un presepe col gommone al centro per fare integrazione, per una preghiera di Natale dei bambini a scuola cancellata per fare tolleranza – e scempi simili -, tutto questo valga per quanti dei nostri fratelli passeranno il Natale in una tenda o in alloggio di fortuna, al ghiaccio del Lazio di montagna, aspettando, da più di un anno, tra le schifose promesse della politica, la dignità di una casa, piccola e insufficiente, ma origine da cui poter ricominciare. Resurrezione, come la Pasqua, natività, nascita, come il Natale, come il simbolo del Presepe. Come ad Amatrice.

Perché la tolleranza è dovere del fedele, ma non sia una trappola in cui cadere in questa modernità, che vada, cioè, nella direzione esclusiva dettata dalla politica e dei suoi interessi elettorali, al suo porco espansionismo, ma rimanga attaccata alla Fede e al filtro della logica civile. Così quindi, “se, mietendo il tuo campo, vi avrai dimenticato qualche covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché il SIGNORE, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle tue mani” (Deuteronomio 24:19). Per lo straniero, sì, quanto per l’orfano e la vedova.  Per una dignitosa accoglienza. E la Fede viene colonizzata dalla politica. Così, quei covoni avanzati, dimenticati, che servivano per l’orfano e la vedova, vanno solo allo straniero.

E questo non è Cristo, è paraculeria.

Significati che si fondono e formano l’origine. Solo qui è la risposta ad ogni fottuto dramma di questo nostro tempo. Tanto è il Natale, la natività, la nascita di Cristo, quanto è il Sol Invictus, il Sole Invincibile che ha sconfitto le tenebre. Del male e delle menzogne. Sol Invictus che diventa Natale. Tanto è la tolleranza, quanto la Pietas – la devozione religiosa, l’amore per la patria e la famiglia -, sfiorando la Misericordia. Qui siamo noi, un puntino rosso nella mappa del mondo. Tanto vi è cristianamente sì, un principio di uguaglianza. Sotto la Chiesa ricostruita da Francesco, vi devono essere tutti, orfani, vedove, stranieri, sì, e terremotati, poveri, chi è ospitato, e chi ospita.

Così quando vorrete rifugiarvi, in questo dramma continuo che sono i nostri giorni, in un’immagine che vi riporti sulla strada del ritorno, pensate ad Amatrice, a quei fratelli, alla neve.

Ecco dove tornare. Ed ecco dove andare: ad Amatrice. Andate a cercare lì, il presepe. La venerazione, l’approfondimento spirituale, la mistica del silenzio, la coltivazione dell’intimità, la preghiera, non sono fattori esterni e lontani da ciò per cui stiamo combattendo, ma ne sono l’essenza stessa. Essenza stessa di cui il presepe è investito. Presepe che non è, quindi, solo una battaglia laica e di rappresentazione sociale, in direzione della difesa di certi valori non negoziabili, come l’integrità familiare, o la tutela politica della Fede, ma è soprattutto un richiamo al Sacro, al simbolo, alla radice irrinunciabile di uomini che non vogliono vegetare inanimati, ma desiderano estendersi verso l’Assoluto. Nelle cose piccole, ed in quelle universali.

E nelle cose piccole, nel freddo dicembre, cade la neve.

Ama il prossimo tuo come te stesso. E vallo a trovare sotto la croce di Cristo, prima di ogni (e)mozione politica. Perché non vi sia il fedele da battaglia; ma il fedele sia integrale, un guerriero credente. Che non ha bisogno di replicare rabbia in copia incolla col sistema che si erge a difesa del presepe nelle scuole, per pulirsi la coscienza, per fare il compitino anticonformista per casa; ma che ha necessità di farlo, e ancor prima di credere, di ragionare e proporre i precetti della Fede, da estendere, però, universalmente, la parola di Dio; di impugnare sempre il Vangelo e qui ragionare sopra le cose. Partire per una crociata all’improvviso, serve solo a spezzare gli eserciti.

Così guardate questa foto.

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Guardala così, dall’alto. Spruzzata di neve. Che non sapendo, certamente, dove cadere, ricopre ogni cosa, morta o gioiosa.
Guardala e di a te stesso, “non ricorda un presepe?”. Natività della dissoluzione, grido disperato di rivoluzione. Non c’è stella che brilla, ma un cane che strilla, di notte, tra le macerie, solo spostate per non dar noia a chi attende una casa, forse una Chiesa.
Guardala, e ricordati che prima di integrare altre civiltà, di eliminare il presepe, fulmine d’amore francescano, di farne uno senza Gesù, e con dentro i pupazzetti della fantasia, ma con un gommone al centro, forse dovremmo ancora integrarci tra di noi, prendendo la sorella e il fratello senza più niente, e con la vista della neve che ricopre la morte intorno, e portarlo da noi, come prossimo, prima di ogni altro prossimo.
Guardala, la neve ricopre anche l’odio. Tra questi tetti marci trovi la croce di Cristo. La sua morte. E la sua rinascita. Qui è il Natale.
Uomo, Bergoglio, cittadino, la Croce di Cristo è come il The Infrè, è buona qui, ed è buona anche lì, contemporaneamente.

AMATRICE. Natale 2017

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