San Francesco non era un hippy. Esattamente come non lo era Cristo, che per un pelo non diventa una maglietta post-Woodstock. Essi non erano ciò che può far comodo. Erano ciò che erano.
E così con questo valzer di mistificazioni, quest’epoca comprende, forse, la peggiore delle ideologizzazioni della funzione della Fede. Peggiore, forse, dei Patti Laternanensi, poi Craxi-Casaroli del 1984; peggiore, forse, delle Madonne a caso nei riti ‘ndranghetisti, o nel breviario di Totò Riina, mai pace all’anima sua. Una fu convenienza, l’altra demenza. Oggi, invece, lucidissima devianza. Alla storia non rimane la convenienza, troppo legata al momento; né la demenza, troppo effimera per fare radici. Mentre la devianza, sì, perché rischia di diventare deviazione, assuefazione, nuova verità.

16-09-26245-1Il poverello d’Assisi, nel suo saio ci riassume tutti. Ferventi, menefreghisti. Assidui, latitanti di Dio. Atei, agnostici, credenti. Patrono d’Italia, già lo è. Della laicissima Italia, nella laicissima Europa che, semplicemente, fa a meno di menzionare le proprie origini spirituali tra le sue carte. Europa di carta, fragile impilamento di convenzioni, trattati, sanzioni e regolamenti (di conti).
Un punto minimale, come vuole la pubblicità di oggi, sullo sfondo verde di una collina. Un hotspot per Dio, che non è un’imprecazione, attaccato al terreno.
Poverello. Italiano. Guerresco, puttaniere, figlio borghese. E per questo più santo di tutti. Più vicino a Dio di ogni pecora farisea, di ogni brava donna che corre all’eucaristia, la Domenica, dopo aver preso le botte dal marito che le siede accanto. Di quegli hypokritai, ipocriti, attori che non vivono Dio, ma giocano il loro ruolo, così definiti da Cristo, che si credono di essere il Bene, ma nient’altro sono che il Male. Ma non dirà nulla, né nulla confesserà. Forse perché la confessione, come sacramento, ormai è in forzato pensionamento.
Dio lo sceglie perché è bello e ricco, e ci sa fare di scherma. Andava alla guerra quando l’ha chiamato a sé. Perché ad Esso servono guerrieri della Fede, per scendere ancora tra gli uomini. Non solo attimi di estatica trascendenza, ma anche cadute da cavallo. Botte forti per vite forti.

San Francesco è il collegamento tra Dio e gli uomini.

E Francesco d’Assisi, tra gli uomini, è quello che a Gesù Cristo rassomiglia di più. Nella barba diradata, nella dimensioni dei giganti alti un metro e mezzo. Francesco di Pietro di Bernardone è un ponte senza tempo, senza spazio. Che comprende il tempo di tutti, lo spazio di molti, tra Dio, l’Assoluto, il cielo stellato sopra di me, e la legge morale che è in me. È un riempimento, non un riempitivo. È assieme testimonial della Chiesa spompata, senza lucidità e senza idee, e testimonianza. È povero e rock, cantore e perdonatore. Antipapa e papesco. Regolatore. Come in Cristo ci riconosci la sinistra e la destra. La moltiplicazione dei pani e dei pesci, e la difesa della casa. Al contempo ci trovi una delle possibilità chiavi di volta per il ritorno alla sovranità degli uomini, e quindi ad una condizione umana sostenibile, ancor prima che politica, economica, strutturale, ideologica, che sviluppi il pensiero critico, l’angolo intimo e spirituale, la sacra indipendenza degli uomini, la loro capacità di essere il tempo che vivono, e non solo ipocriti, attori, appunto; la loro capacità di reagire alle imposizioni ideologiche, snaturanti, aberranti, annientanti e, soprattutto, massificanti, che rendono uomini standard, costretti a replicare, a pensar poco e bene, e a non trasformare il prodotto della loro intimità, del loro pensiero critico in azione.

Francesco D’Assisi, riferimento universale nell’epoca del cedimento di ogni faro nel buio. Molti crollati, come la religiosità, molti pieni di crepe a rischio cedimento, come la famiglia. Talmente rock da essere l’unico collante percepito tra il fedele e l’ateo. Ricongiungimento al Divino persino per l’agnostico. San Francesco è l’antistato. È il grimaldello teorico: per mettere ordine al caos, ci vuole ordine, non altro caos, correndo incontro alla semplicità, che regge e regola il tutto, e smonta l’eccessiva complessità. La semplicità, dalla foglia, al figlio, è generazione di un processo vitale. Facilmente individuabile, scalzo, ancora lo vedi camminare tra le colline dell’Umbria. Vedi un punto, vedi un saio. Sai che lì c’è Dio.

Sai che c’è Dio. E non una scusa. Una scusa per un Papa, per gli estremisti del migrantismo, paravento per la politica, indifferenza per chi è incapace, con la propria vita, di testimoniare Dio, valga per un ministro del Culto, o per un fedele. Proprio come per quelli che ignorano il Presepe, non lo fanno, lo cancellano. Perché sì, è vero che Francesco è l’alfiere della pace, della letizia, della povertà e della tolleranza. Ma è pur vero che non è un santo sociale, ma una liason con Dio e la sua parola. Impossibile, quindi, ridurlo ad un hippie. Impossibile eleggerlo a santo patrono dei migranti, degli antipresepisti, del bergoglismo, se si va, necessariamente, a dimenticare l’aspetto teologico, divino, spirituale, cristiano della sua essenza. Perché è qui che Francesco diventa scomodo, in quanto capace di unire l’uomo al precetto di Dio, di completarlo ed integrarlo, non di separarlo dal Divino per offrirlo in sacrificio al culto estremo, ed unico possibile, della materia, della Tecnica come involuzione ripetitiva ed organizzatrice, come divinità del raggiungimento, in quanto strada lastricata per il Progresso: Dove sono le tenebre, che io porti la luce. E quindi dove sono le tenebre della negazione, della censura, della dimenticanza, dell’oppressione, fa che io, tramite Dio, porti la luce. E l’uomo, da solo, può farcela a reagire, a ritrovare se stesso. Passando anche e soprattutto per Dio, però: “Dove è dubbio, che io porti la fede”.

Proponendo, quindi, un santo sociale, anziché “integrale”, si compirebbe un gesto barbaro e indegno, che ricorda quelli che, forzatamente, riducono Ernesto Che Guevara a paladino di una destra rivoluzionaria, finanche conservatrice, per via delle sue uscite “nazionaliste”. Leggasi mistificazione, non interpretazione.
E se non ci rimane che aggrapparci alla realtà, alla geometria, alla logica, e a certi riferimenti dati, alla semplicità, alla lucidità per non impazzire ed andare a regredire nella categoria del nuovo millennio, quella delle non-persone, San Francesco va assolutamente riscoperto. Ma non come misero oggetto di militanza e presenza. Come ispiratrice virtù esemplificativa di una vita sostenibile, con Dio, certamente, ma soprattutto con sé stessi. Va fatto riscoprire ad un Papa green, che anziché confermare il proprio popolo, sembra pensare a compiacere il mondo dei non-credenti, quasi Dio dovesse diventare una giustificazione per chi non ci crede. Ad un Papa che vede nei migranti il volto di Gesù e fa politica, anziché pensare a riempire le Chiese, che dedica un giubileo alla misericordia, anziché al Timor di Dio, come suggerito da Camillo Langone, proprio nel momento, grazie alla trasformazione materialistica della vita, del tocco, dell’erotismo appagante della tangibilità, di un Dio genio della lampada, a cui si chiede di curare le malattie dei propri figli, senza che nessuno gli dedichi l’anima, Cristo, e con sé il senso di Assoluto, scappano dalla nostra vita, ormai impegnata in una continua esecuzione di compiti concreti, che ci inquadra nel ruolo di cittadini e di individui, senza che nessuno si dedichi la vita.

Un Papa che vuole chiamarsi Francesco, perché è bella la sua figura oggi, ma a cui, per dirla con Marcello Veneziani, manca l’aura del sacro, il carisma religioso, la grazia del Santo Padre”. E continua: “Lo sento più come il presidente di una Ong, a capo di una grande, antica organizzazione non governativa. Il suo tema cruciale non è il rapporto tra l’uomo e Dio, il mistero della fede e della resurrezione, l’anima immortale e Nostro Signore Gesù Cristo. Ma è l’accoglienza, i migranti, il soccorso ai poveri di tutto il mondo, il dialogo coi non credenti, o coi credenti d’altre religioni, a partire dagli islamici, la voglia di compiacere i media e lo Spirito del Tempo, più che lo Spirito Santo”. A cosa servirebbe un’altra ONG, nella fattispecie individuabile in questa Chiesa con tanti diritti e pochi doveri? “Bergoglio fa un passo in più e si accoda all’ideologia dello sconfinamento di popoli, di culture, di sessi, di ogni limite. Come una qualsiasi Boldrini o un Mattarella, coi quali Bergoglio forma il Trio Accoglienza. Vuol trasformare l’Italia in un corridoio umanitario e l’Europa in un grande centro di accoglienza, tuona contro i muri altrui e dimentica di vivere nel sicuro recinto dalle Mura Vaticane… Per il resto, Francesco sta facendo precipitare la Chiesa cattolica verso un destino sindacale-umanitario, genere Emergency o sant’Egidio, da agenzia per la ristorazione filantropica universale; un ente spiritualmente spento che preferisce dialogare con i progressisti atei piuttosto che con i cattolici non progressisti. E senza convertire alla fede nessuno”.

In quella chiesa, ormai simile ad un’agenzia sociologica, ad una cooperativa sociale, ad un’associazione, anziché ad istituzione umana e divina allo stesso tempo. Continuando ad occuparsi con superficialità spirituale, sempre più riassuntino opportunistico delle Sacre Scritture, teologico, impegnata a richiamare la povertà solo parlando dei migranti, dei sistemi sociali. Indaffarata nel dimenticare che la salvezza dell’ecclesia, della comunità, dell’origine, dell’identità spirituale, è fondamento per l’uomo, specie occidentale, inevitabilmente passante dal Vangelo. Per cui la teologia, l’interpretazione del Vangelo, dei precetti sacri, e degli accordi religiosi essenziali, costituiti di pontificato in pontificato, diventano sempre meno preponderanti rispetto al messaggio che pubblicamente la Chiesa offre; generando così non un faro nella tempesta, non un’interpretazione maggiore del tempo, ma un’ennesimo tweet sulla realtà, che si perde in un mare di fugaci letture che si “accodano all’ideologia”. Qui, Francesco d’Assisi ricorda il ruolo del sacerdote, la strada del Ministro del Culto. Ricorda che essi hanno dei doveri, e non solo dei diritti, proprio nell’epoca del diritto facile. Hanno il dovere della testimonianza di Dio, tra i tanti. Dovere che, tra SACERDOTI DANZANTI, PRETI CANTANTI, MESSE CONCERTO, o vigliaccate come la mancata creazione, e quindi celebrazione, del Presepe per paura di offendere i fedeli musulmani – come accaduto qualche giorno fa. Don Sante Braggiè, cappellano del cimitero civico di Cremona, ha deciso di non allestire il tradizionale presepe per “non urtare la sensibilità dei musulmani”. -, viene sempre meno. “Ricordatevi, fratelli miei sacerdoti, ciò che è scritto riguardo alla legge di Mosè: colui che la trasgrediva, anche solo nelle prescrizioni materiali, per sentenza del Signore, era punito con la morte senza nessuna misericordia.”

Fratello Sole. Sorella Luna. Sì, ma anche “dove è odio, fa’ che io porti l’amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l’unione”. Per gli antifascisti che predicano l’inclusione democratica, rendono santa quella Costituzione che permette loro di esprimersi. Abituati alla mistificazione, alla deviazione, essi stravolgono anche ciò che gli occhi vedono. E paraculamente si riscoprono francescani perversi, nelle parole di negazione e censura, anziché in quelle di tolleranza e accettazione di un messaggio diverso. Così capita di leggere una nota di alcuni intellettuali e accademici di Perugia, contro una pacifica e legittima manifestazione di Casa Pound, contro il degrado cittadino. Una missiva in cui si legge la chiarissima volontà di impedire ai neofascisti di sfilare, di esserci, anche solo di essere, di esistere. Nella quale cui si contrastava fortemente la manifestazione nella città di Perugia “multietnica e democratica”. Ed in cui, insieme, “la regione di San Francesco dicano un secco no a questo ritorno al passato, riaffermando i valori della Costituzione antifascista nata dalla Resistenza”. La regione di San Francesco. Ma San Francesco non avrebbe voluto questo. Ed ecco, tra le tante, l’immagine bieca e stupida dell’ideologizzazione della funzione della Fede. “Dove è odio, fa’ che io porti l’amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l’unione”.
E così ragionando semplicemente per spunti, si giunge al Presepe, con una riflessione finale che costituiva un mio commento uscito nei giorni scorsi su Il Giornale, e che vuole chiudere questo percorso.

“Amatrice vista in foto dall’alto sembra un presepe. Tra quei resti, vi è una disperata richiesta d’attenzione. Nell’inverno delle coscienze, si gela al freddo dell’indifferenza di Stato che costringeranno Cristo, dal sisma del 2016, a nascere ancora in un alloggio di fortuna, e ad aspettare una casetta per ritrovare dignità nel dramma. Una casa per ripararsi dalla distruzione e rinnovare l’esistenza. Evocazione del Natale, che è, insieme, richiamo allo spirito di Francesco d’Assisi, da cui nacque l’immagine del Presepe, a Greccio.
Occorre recuperare i significati.
Nel cammino di San Francesco è racchiuso il senso del presepe, come vicinanza e manifestazione di Dio; il più puro senso di misericordia ed accoglienza, ma anche la necessità di ricostruire la casa dalla rovina: «Francesco va’ e ripara la mia chiesa». Rifonda la casa in disgrazia, gli disse Cristo; mattone su mattone, egli donò nuova immagine ad un’antica essenza, alle macerie di San Damiano. Poco prima di Natale, mentre impazza la tolleranza dei buonisti, qui è il significato del Presepe, nelle mani di Francesco d’Assisi, che non solo accolgono chi migra, ma, ancor più, ricostruiscono la distruzione, offrendo nuova vita e armonia alle macerie di Amatrice. Così come dovrebbe essere. Ma non è.
E mentre ci si sbraccia per rendere l’integrazione, sostituzione, mentre a Castenaso (Bologna), Cristo nasce in un gommone, che viene messo al centro del Presepe in una piazza cittadina, – per evidenziare «il problema legato all’accoglienza dei migranti», secondo il sindaco Sermenghi -, la ricostruzione ad Amatrice è ferma – «in un anno sono state presentate mille domande di contributo e approvate cento, a fronte di 60 mila case da sistemare o ricostruire» (Corriere della Sera) -. Su 3.700 casette richieste, solo 1.300 sono state consegnate, mentre ci si annulla nella riconoscenza sfrenata dell’accoglienza, e nell’irriconoscenza delle proprie priorità. Torna alla mente la figura di San Francesco, ed una reazione concreta alla contaminazione ideologica della funzione della Fede, che il politicamente corretto dei nostri giorni opera. In quel “prossimo tuo” da amare come te stesso, che è migrante, sì, ma anche, e ancor più, un italiano a cui non rimane più nulla. L’empatia è a senso unico. Guardando quella foto di Amatrice dall’alto, viene da pensare che prima di integrare altre civiltà, forse dovremmo ancora integrarci tra di noi, prendendo per mano quei fratelli senza più niente, prima di ogni altro prossimo. Tra quei resti di case trovi la croce di Cristo. La sua morte. E la sua rinascita. Tra gli italiani che non vanno più di moda, lì è il Natale e il presepe”

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