רינת_במופע_מלהיב

Arte, povera puttana. Schiava sporca di questo nostro tempo, in cui nani proiettano le ombre dei giganti, per tentare l’eternità e infilarcisi dentro. Costi quel che costi, in termini di gusto. O di denaro (ne sa qualcosa il “nostro” Maurizio Cattelan, il cui Him, il piccolo Hitler penitente, è stato venduto a 17milioni di dollari).

Allora ecco la nuova visione.

Un campo rom, uno sgombero di abusivi, la polizia cattiva e una nomade pistolera che ucciderà il cattivo poliziotto. Una scena del far west quotidiano? No. La Carmen, opera immortale di Bizet. O meglio, lo scenario artistico della nuova Carmen, come concepita dal regista Leo Muscato, con un finale a sorpresa suggerito da Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fondazione Maggio musicale fiorentino: la protagonista, Carmen, appunto, non muore. Ma sarà lei ad uccidere il suo aguzzino, Don José. Stravolgendo completamente l’intento originario dell’opera. Come mai? Perché sarebbe un femminicidio. L’ennesimo insopportabile femminicidio. Non l’omicidio di una donna. Proprio un femminicidio (castigat ridendo mores…)

Tutto questo accadrà davvero, il prossimo 7 gennaio al Teatro del Maggio Musicale fiorentino.

Alcune domande…

Ci s’interroga spesso ad alta voce su quale funzione debba rivestire il presente nell’arte, e non viceversa, per una volta. Arte che si cristallizza e diventa eredità di visioni e messaggi, suoni, figure, fantasie. Un po’ come quei Santi ripudiati dalla Chiesa del progresso, col volto dei migranti, che verranno salvati dalla pittura, e consegnati, ancora una volta alla luce dell’immortalità. Come impronte. Ci si chiede, e si cerca di capire, quanto presente può essere sciolto in arte senza avvelenarla, senza contaminarne i processi che garantiscono messaggi capaci di elevarsi al di sopra dei capricci di un’era che alleva i difetti e li protrae in diritti.

Come ricostruire la Basilica di Norcia devastata dal terremoto dello scorso agosto 2016? Esattamente com’era, tributandola, o secondo i criteri della modernità, innovandola? Concependone una funzione sacra che dialoghi col territorio o con la storia (a tal proposito suggerisco la meravigliosa lettura di Costruito da Dio, di Angelo Crespi per Johan & Levi, fresco di stampa. Da un lato le chiese contemporanee, anche quelle progettate da celebri architetti, sono spesso un inno al brutto, spaesanti, prive di quella dimensione trascendente a cui la tradizione ci aveva abituati, dall’altro i musei, soprattutto i musei del contemporaneo, sono edifici magniloquenti che a livello simbolico hanno sostituito nelle città le antiche cattedrali. Le chiese del contemporaneo sembrano edifici pagani, i musei edifici religiosi)? Ampliare un eco precedente, o generarne uno nuovo? Scrivendo noi la nostra storia, in questo esatto momento, non abbiamo una chiave di lettura certa. Di sicuro, bisogna entrare nell’arte piano, piano. Come in un santuario dedicato alla Madonna, come in un tempio: il nostro. Ossequiosi, una volta addentrati, si può commentare il sublime, osservarne lo scempio o il capolavoro; a meno che, non sia la prorompente prepotenza, la superficialità irrispettosa di un regime, che castra, brucia, censura, cambia. Di un’istituzione ideologica indelicata, che il presente lo vive, meramente come transito per giungere al futuro. Per cui gli uomini sono un mezzo, non un fine. Arrogandosi il diritto di imporre il pensare, di suggerire il parlare, di sfocare il guardare. Persino di cambiare l’arte. Come ormai accade spesso, la correttezza politica, che altro non è che una serie di sintomi psicosociali applicati ad un’impostazione politica; un’eterna adolescenza, un’ossessione, una fragilità endemica che porta ad autoannullarsi, ad autoescludersi, in un costante senso di inferiorità, detta legge. E lo fa anche in arte, portale per l’antico futuro, connessione, angulus in cui rifugiarsi, otium e preghiera, spazio di ragionamento pieno di ossigeno, puro.

Fresco.

Come una vetta.

Una vetta civile, una vetta spirituale. La vetta della civiltà occidentale.

Così su Facebook si censurano le opere d’arte, ma di farlo con i culi non se ne parla; sul web si castrano parole, opere, ma poi si trovano centinaia e centinaia di foto e video di minori nude intente a praticare la propria maliziosa ingenuità; negli States si abbatte la crociata contro le statue di Colombo, il bastardo conquistatore bianco, il quadro di Balthus si toglie dal museo perché peccaminosamente pericoloso, e in realtà candidamente ingenuo, tocca anche all’Opera subire una modifica. Netta, ideologica. Inutile. Sinceramente non necessaria. Il finale della Carmen di Bizet, opera unica, celebre in tutto il mondo civilizzato, cambia lo storico finale originale: non sarà più lei a soccombere sotto i colpi del suo aguzzino, Don José, ma sarà Carmen ad ammazzare lui (con un colpo di pistola e per legittima difesa, s’intende…).
Il tutto ambientato in un campo rom, negli anni ’80, e non più in Spagna.

 

Ci sono poliziotti violenti in tenuta antisommossa e sgomberi (scommettiamo di sempiterni innocenti) di occupazioni abusive. C’è una donna che è protagonista, Carmen, e, al contempo un “oggetto sessuale”, una vittima, e che dopo tante aggressioni subite col manganello dal poliziotto cattivo, il nuovo Don José, s’impossessa di una pistola e decide di fargliela pagare: sparandogli. E poi c’è la domanda: «Nel momento in cui la nostra società è piagata dal femminicidio, come possiamo osare di applaudire l’uccisione di una donna?», parola di  Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fondazione Maggio musicale fiorentino, ascoltato da Repubblica. Altra metà del cielo, con Leo Muscato, regista, che porterà in scena la nuova Carmen, ripulita secondo i crismi del politicamente corretto, con l’accusa di femminicidio, già approvata dal Savonarola. L’opera debutterà il prossimo 7 gennaio al Teatro del Maggio Musicale fiorentino. Numerose le polemiche già in atto, e l’attenzione della stampa mondiale, dal Telegraph al Times.

Ormai bisogna limare l’attenzione su nulla che non esca dai canoni imposti. Ma allora a cosa serve il sublime delirio dell’arte? E soprattutto perché i sacerdoti del politicamente corretto entrano nel suo tempio urlando? E cosa se ne deve fare il teatro di una platea di ottusi applaudenti e gaudenti, come specifica Giulia Pompili sul Foglio. Nel frattempo, a cuor leggero, Chiarot, ispiratore di questo cambiamento inedito, ritiene «che si possa rimanere fedeli allo spirito di un’opera prendendosi libertà etiche». Etiche, ben detto, ma non ideologiche. Dov’è il confine? È labile, talvolta, per questo è difficile mettere mano al genio virtuoso dei maestri, come Bizet. Per questo l’umiltà impone un esame di coscienza.

In ginocchio non più davanti a Dio, o al sudore dell’uomo, ma di fronte al politicamente corretto, capace, nella sua infinita incapacità di gestire e leggere il presente, nella propria cocente stupidità, di ribaltare i vizi di questo nostro mondo, non di eliminarli, maturamente. Razzismo al contrario? Ebbene, anche da queste colonne si è gridata giustizia per quelle povere donne ridotte a straccio dalla pochezza di taluni; ma mai si è sfiorato il ridicolo, affibbiando la parolina magica ad un truce omicidio, celebrandola come possibile, e magari salvando la povera Carmen da quegli uomini bastardi che poi, in questa nuova riedizione: «Muscato si permette di maltrattare i personaggi maschili dell’opera. Nessuno escluso», commenta l’articolista Fulvio Paloscia, a cui risponde Muscato: «Anche Escamillo muore, ucciso da un toro. È stata la rilettura della novella di Mérimée, che ha ispirato Bizet, a convincermi. In epigrafe, lo scrittore ha posto i versi di un poeta della Grecia antica, Pallada: ” Ogni donna è fiele; non concede che due ore di letizia: una sul suo letto nuziale, e una sul suo letto di morte”. Parole terribili che introducono a un racconto che cerca di assolvere Don José. Non è la strada seguita da Bizet: anche lui ha commesso un tradimento etico»

Il vizio, di questo tempo, di sentirsi Dio, di superarlo. Di annichilirlo e in un angolo incastrarlo. Così come quegli uomini casuali che fino a poco fa ci hanno governato sfiorarono la presunzione di modificare la Costituzione per un personale assestamento politico, così altri, dello stesso stile, non distinguono se stessi dalle stelle che in cielo esplodono di luce non percependo, però, neanche per un attimo, la distanza che li separa, da un’interpretazione del tempo che è destinata a sgretolarsi finiti i capricci, terminato il pianto politico, all’anticamera della condanna della storia alla dimenticanza.

E se il pubblico contesterà? «calare l’opera in anni a noi vicini in un campo nomadi che io racconto con un approccio pasoliniano alla realtà, alla verità. Non solo furti e malavita, dunque, ma la fatica di vivere, l’invecchiamento precoce di chi trascorre la propria esistenza sulla strada, la dignità di un popolo che accetta la propria vita come la migliore possibile […]«L’intrattenimento è la morte dell’arte. La lirica deve scuotere a prescindere dalla bellezza, aprire dibattiti al suo interno su temi che creano tensione nel presente. Sul palco ci saranno anche 70 bambini. Molti di loro forse non avranno mai sentito parlare di femminicidio e, grazie a questo spettacolo, si sentiranno responsabilizzati sul tema. Magari, in futuro, ci saranno meno Don José»

Nuova etica, nuova lingua, nuovi occhi, a caso. Da infilare un po’ovunque. Eppure, come ammette lo stesso Muscato: «Il destino di morte di Carmen è il motore dell’opera, perché ribaltarlo?»

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