Stavolta ci siamo spinti oltre. Oltre il baratro, fin nella miseria umana. E quella non si può cancellare con un colpo di spugna. L’autodistruzione d’Italia: ecco la nostra guerra incivile. Chi voleva spazzare via le élite e ne è diventato parte, perché solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra. Ma chi in Italia è senza peccato? Miracoli e miracolati.
Congelato di rabbia, battendo sui tasti, non discuto, né dubito dei dettami costituzionali che garantiscono al parlamento il potere di trovare una nuova maggioranza, della legittimità di questa operazione. Schiumo di rabbia per la fine degli uomini, che rappresenta la fine della carne e dell’arte, la cessazione della virtù umana e politica, qualcosa di ben più di un governo da amare o da odiare, di un’elezione andata bene o male: Renzi, Di Maio, Zingaretti e simili, io vi schifo. Io non vi riconosco. Voi non siete ciò che possa rappresentarmi nella pienezza dell’etica democratica, né nell’estetica della decenza. E nel caso di un fugace incontro, voi non avrete la mia mano, perché vi possa essere negato il gesto di più semplice, intima e onorevole intesa. Nello spirito di Palach e di Brasillach, di quei fratelli maggiori che ci hanno preceduto e per i quali occorre rileggere la propria opportunità di essere storia, vita e integrità militante, proprio nell’assenza di una più basilare, manifesta e profonda ragione, o forma di giustizia e lealtà, di quel Paese che fa male, arde, scoppia come bolle incontrollabili nella notte, all’improvviso, brucia come sale nel sangue, non sarò con voi. Sarò con loro, con quei fratelli maggiori, a vivere i mesi, spero pochi, di questa nuova e nefasta istituzione nascente. Con chi è in grado di offrirmi un esempio che lo Stato non riesce più a fornirmi.

Sbaglia chi crede ancora negli schieramenti. La vittoria all’italiana è, talvolta, nella sconfitta dell’altro. Annichilimento incontrollato. Sbaglia chi crede che qualcuno abbia vinto o perso, in questo agosto maledetto che avrà il disonore delle cronache. Stavolta abbiamo perso tutti. Gli elettori dei traditori, traditi a loro volta, gli elettori dei traditi, anch’essi isolati nella loro impotenza.

Impotenza.

Nella mia fortunata qualità di cittadino italiano sono abituato a vivere il senso di impotenza. Di fronte allo spread, di fronte ai mercati, di fronte a centinaia di miei connazionali che fuggono, a migliaia di immigrati che arrivano; innanzi all’aumento delle tasse, all’ennesima azienda italiana venduta all’estero o chiusa, alla granitica difficoltà di fare un figlio, alla demografa che si schianta verso il nulla, ai figli mai nati, di fronte al degrado della Capitale del mio Paese ridotta a puttana struccata, da Caput Mundi a cloaca maxima. Io vivo l’impotenza. Mai forte come questa volta. Questa volta è oltre. Oltre l’immaginabile, il plausibile, il concesso. Oltre la perversione più estrema. Un ribaltone fatto davvero (al di là della composizione effettiva del governo) e fatto anche male. Stento a crederci. Privo di ogni proverbiale eleganza politica, di ogni intelligenza tattica, di decenza pubblica, di ogni amor patrio, di ogni collegamento empatico e logico con gli italiani e le loro reali preoccupazioni e necessità. Ecco presentarsi a noi questo aborto, come il tempio venduto per il favore del denaro, del mutuo acceso, per utilitarismo, per volontà personali, per cos’altro altrimenti? Questa volta è oltre, perché non v’è stata idea di Stato, né cultura della nazione, né movente ideale o spirito valoriale più alto a giustificare il “rimpastone”, il “ribaltone”, ma solamente miseria umana. Oltre le idee, stavolta muoiono anche gli uomini e i loro esempi. Esempi di Stato. Stato padre ubriaco e bastardo. Bastardo.

Questo terrorizza.

È la putrefazione umana. La decomposizione umana. Vendite, compravendite, tradimenti, rinnegamenti, giravolte, dispetti, odi, rancori personali. Incoerenza, inesistenza, nessun rispetto delle regole, nessun coraggio, nessun rispetto degli italiani. E muffa. Molta muffa. La dissennata sfilata degli uomini replicanti, che sfiorano la vita come un’ombra perché non li tanga e li scorti al tramonto col massimo profitto e il minimo sforzo, azzerati nell’animo, nello spirito e nella fede, nell’identità, nel valore della lealtà e dell’onore. Come quel Mario imprigionato, figlio di quel borghese piccolo, piccolo monicelliano. Vili e curvilinei, arroccati, sporchi. Figure teatrali intorno alla nostra vita di perenni sudditi impiegati, di partite Iva sognanti e affaticate, s’aggirano, pirandelliane e shakespeariane, replicano gesti per non staccarsi dal bordo, per incapacità manifesta, con le pupille sbiancate dal guadagno. Ometti e donnette che hanno definitivamente interpretato il mantra utilitaristico del tempo presente e hanno confuso la felicità con la soddisfazione. Vada come vada in queste ore assurde, ma questa puzza di uomo morto, questa lunga vacanza dall’agoghé, questa putrescenza, sono insopportabili a ogni anima ancora viva. Questo è il gran dramma del nostro tempo, quello degli uomini sovrani di se stessi, ancora prima che delle idee, che lentamente digradano verso il bianco nulla. L’estinzione degli uomini integri.

Miei cari governanti futuri, nati dall’ingordigia, io vi disprezzo, vi rifiuto. E non cercherò il vostro perdono. Potrete ben ammaestrare le foche, potrete salvare l’Italia, ma quel che è accaduto è la legittimazione dell’inconsistenza. E a questo non v’è riparo. Ci consegnate al vuoto della nostra impotenza. È misero perdonare quei governanti che abbandonano i propri figli al vuoto e alla confusione, alla spaccatura. Avrete la poltrona ma non avete, né avrete il consenso popolare, il cuore d’Italia. Il cuore d’Italia, quello no. E ve ne accorgerete. Politiche, regionali, amministrative ed europee, il tessuto connettivo, i pori sulla pelle d’Italia, parlano d’altro, di altri risultati e altre volontà; l’ultimo anno e mezzo testimonia che questo orribile baccanale che solo VOI avete il coraggio di chiamare governo, segna la spaccatura tra popolo e istituzioni. Siamo spaccati. Questa è la nostra guerra incivile.

Uomini replicanti.

È il nostro nuovo 8 settembre. Quel PD rinnegato, dal cui odio sgorga la primigenia battaglia, la primordiale officina di conquista del web del Movimento Cinque Stelle. Quel PD, ancora una volta al governo d’Italia senza il consenso popolare, senza il volere delle urne, che aveva perso nel marzo 2018, bocciato dagli italiani, dalla coalizione di centro destra e dal Movimento Cinque Stelle. Quel Movimento Cinque Stelle, da prodigio postideologico, a nuova Democrazia Cristiana, asse del guadagno, centrotavola. Da uno vale uno, a uno vale l’altro. Da mai col Partito di Bibbiano, al governo con esso. Mai vista, con così tanto infantilismo, voracità e sciatteria, una giravolta incredibile e più raccapricciante, a livello umano (insulti, miseria e odio di ogni tipo verso il PD, il nemico da combattere. Ben ce ne ricordiamo tutti) e politico (proprio quel nemico da combattere, l’anticristo, l’opposto, ora diventa amico, con cui mantenere i propri interessi). Io non tifo, io sono sveglio. Nulla mi rappresenta in questo Parlamento. Io sono triste, abbattuto, finito, per questa mia patria, che mi fa male. Il tempo è galantuomo, cari governanti.

E a quanti vorranno leggere e condividere questa pagina amara, io dico che questa volta bisogna essere tonici, se il “governo” giallorosso si farà. Tonici e tesi. Sovvertire la presenza virtuale, ergersi da fantasmi perduti e urlanti, lontani dalle geometrie del reale, assenti ingiustificati sopra l’asfalto della città. Materializzare la nostra carne in piazza.  Ci avevano dimenticato. Una piazza che non dovrà essere  solo di Salvini o della Meloni, ma di ogni italiano ancora lucido, che si chiede cosa conti il proprio voto, la propria sovranità. Che sia la piazza di tutti gli italiani ancora lucidi che si ergono contro questa porcheria. Anche degli elettori grillini, se necessario. I primi a dover scendere in protesta oltre la piattaforma Rousseau (ricordate la vita reale?), i più traditi, presi per il culo, oltraggiati, sacrificati sull’altare di interessi privati, odiati, dovrebbero essere proprio gli elettori del Cinque Stelle. Al loro silenzio si dimostrerebbe defunta la militanza, eziandio, la credibilità dell’esistenza stessa, mei grandi recinti per italiani, in cui far pascolare il popolo nell’illusione della partecipazione globale. Essi non hanno cessato di essere massa, perdendone la coscienza in favore di atti concessi a minoranze qualificate, come quello del governare, contraddicendo il più grande esploratore delle masse, José Ortega y Gasset; essi, se rimarranno in silenzio, oltre l’odiato web, saranno il segno del tempo e delle cedevolezza. Umana, ancora una volta. Essi saranno ancor più massa.

Questa volta non dovrà essere una passeggiata coi panini nello zaino, con una bandiera ad asta lunga sopra la testa, col vento a favore e l’autobus di ritorno dopo il comizio del gran capo. Questa volta, chi ancora è lucido, dovrà vivere, come potrà, quella piazza come ultima difesa della propria dignità pubblica, della propria rispettabilità, della propria porzione residua di sovranità nazionale, ancor prima che venga intaccata quella privata dalla scelleratezza del governo prossimo venturo, dalle sue iniziative. Ancor prima che la censura si abbatta e i confini decadano.

E così il voto degli italiani non conta più nulla, tantomeno la loro rispettabilità. In attesa di un eventuale Conte bis…betico, così come ben lo ha definito Il Tempo nell’edizione del 27 agosto, viene da ragionare sulle parole del direttore Sallusti, quando afferma, sconsolato e lucidissimo, che in effetti in Italia, a queste condizioni proporzionali e parlamentari, è il parlamento ad essere sovrano, non il popolo, che ormai, in maniera limpida, nitidissima, ha poco più da fidarsi degli uomini che sceglie col proprio voto, il quale verrà puntualmente disatteso per qualche isterica schizofrenia politica, che condurrà, con l’alibi della parlamentarità repubblicana e democratica, a perversioni impensabili, quali anche riportare in vita morti e sconfitti che l’Italia ha cassato, dimenticato, bocciato. Che non sia, pertanto, una reductio ad salvinium. Il problema è maggiore e successivo all’iniziativa (per quanto contestabile; per quanto capace di nutrirsi di proprie logiche, in parte ancora sconosciute) di Matteo Salvini di mettere in crisi il governo gialloverde. Le responsabilità sono molteplici. La palla è stata in mano ai Cinque Stelle, la strada naturale era quella del voto, proprio perché nella composizione del futuro del Paese, bisogna tener conto anche del sentimento popolare, non solo della matematica spicciola, altrimenti è imposizione. È una connessione complessiva, un ragionamento sopra le cose complessivo quello che il Presidente della Repubblica deve compiere. In quel contesto, il Cinque Stelle aveva il potere di essere semplicemente coerente con la “propria identità” di apritore di tonni in scatola: fallita l’esperienza di governo con la Lega, ritiratasi dai giochi, e maledicendo una qualsiasi forma di accordo con il PD, si sarebbe dovuti tornare alle urne, sponsorizzando indirettamente l’ipotesi salviniana, non per filosalvinismo improvvisato (figurarsi…), ma per semplice linearità con la propria missione. Questo non è accaduto. La palla l’ha avuta il Cinque Stelle che, in questa modalità, si è fatto autogol. Un autogol che oggi non appare tale, ma nel tempo potrebbe essere evidente. Il tempo, repetita, è galantuomo.

Qui hanno fallito gli uomini.

Vi rifiuto, piccoli uomini. Chiunque siate. E vi processo per alto tradimento con le parole di Robert Brasillach:

“Il mio Paese mi fa male per le sue vie affollate, per i suoi ragazzi gettati sotto gli artigli delle aquile insanguinate, per i suoi soldati combattenti in vane sconfitte e per il cielo di giugno sotto il sole bruciante.

Il mio Paese mi fa male in questi empi anni, per i giuramenti non mantenuti, per il suo abbandono e per il destino, e per il grave fardello che grava i suoi passi.

Il mio Paese mi fa male per i suoi doppi giochi, per l’oceano aperto ai neri vascelli carichi, per i suoi marinai morti per placare gli dei, per i suoi legnami troncati da una forbice troppo lieve.

Il mio Paese mi fa male per tutti i suoi esilii, per le sue prigioni troppo piene, per i suoi giovani morti, per i suoi prigionieri ammassati dietro il filo spinato, e tutti quelli che sono lontani e dispersi.

Il mio Paese mi fa male con le sue città in fiamme, male contro i nemici e male con gli alleati, il mio Paese mi fa male con tutta la sua giovinezza sotto bandiere straniere, gettata ai quattro venti, perdendo il suo giovane sangue in rispetto al giuramento tradito di coloro che lo avevano fatto.

Il mio Paese mi fa male con le sue fosse scavate, con i suoi fucili puntati alle reni dei fratelli, e per coloro che contano fra le dita spregevoli, il prezzo dei rinnegati piuttosto che una più equa ricompensa.

Il mio Paese mi fa male per la sua falsità da schiavi, con i suoi carnefici di ieri e con quelli di oggi mi fa male col sangue che scorre, il mio Paese mi fa male. Quando riuscirà a guarire?”

Non mi interessa se questo “governo”, infine, si farà. Il fondo è stato toccato e questa marcescenza antropologica preoccupa più di ogni giravolta politica, sui temi, perché rende benissimo conto del sottile spessore degli uomini, della classe politica che, poveri noi, guiderà questo Paese, cieco, sordo, muto, ignorante, lontano dalla Bellezza, dalla virtù, dalla cultura, da leggersi col significato originale, intatto, quello di coltivazione delle idee, dell’identità, dei valori, degli studi, summa di esperienza e visioni.

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(foto tratta da Panorama.it)
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