Gabriele Barbati è un giornalista italiano inviato a Gaza per Tgcom24; in questo giorni ha raccontato su Twitter la guerra attraverso quel meccanismo immediato e drammaticamente sintetico dei social-media. Lo ha fatto raccogliendo, di volta in volta, testimonianze e fonti che aggiornavano le notizie sul conflitto. Due giorni fa, dopo aver lasciato Gaza, ha confermato nel suo ultimo tweet che la strage di bambini avvenuta nella scuola rifugio di Al-Shati non è stata causata da Israele ma da un missile di Hamas; esattamente quello che le Forze Armate di Tel Aviv avevano denunciato poche ore dopo i bombardamenti di Al-Shati e dell’ospedale di Shifa (quest’ultimo, in verità, non citato da Barbati).

Da settimane, israeliani e palestinesi si rimbalzano accuse reciproche sulle vittime civili di questa guerra.
 Eppure c’è una frase, nel tweet di Barbati, che colpisce più di altre. Il reporter italiano fa capire che ha potuto dire la verità, solo dopo essere uscito da Gaza “lontano dalla ritorsione di Hamas” (testuale).
Da giorni, diversi media internazionali denunciano casi di giornalisti interrogati e minacciati dai miliziani di Hamas per essere stati testimoni di cose che non dovevano vedere; molti anche i casi di fotografi che hanno subito il sequestro delle proprie apparecchiature. È ovvio che l’uso della censura in zone di guerra è spesso una prassi necessaria ed attiene alla sicurezza dei combattenti e alla difesa degli obiettivi strategici: report  giornalistici e immagini sono elementi troppo utili al nemico per consentire che circolino liberamente. Ma quella che sta avvenendo a Gaza, fuori dalle telecamere dei media ufficiali, è una forma di pressione e di condizionamento che punta a modificare la realtà della percezione della guerra in Occidente.

Il 21 luglio, Nick Casey, giornalista del Wall Street Journal, ha svelato su Twitter come Hamas utilizzasse i sotterranei dell’ospedale di Shifa come base operativa e addirittura come centro informativo dei media.

ll tweet è stato poco dopo rimosso dall’autore dopo aver subito diverse minacce sul suo account.

Il 28 luglio un altro corrispondente del Wall Street Journal, Tamer El-Ghobashy, ha postato un’immagine dell’ospedale di Shifa colpito, suggerendo fosse stato causato da un missile fuori controllo di Hamas.

 

 

 

 

 

 

 

Anche questo tweet è stato cancellato e poi sostituito con un più diplomatico: “non chiara l’origine del proiettile”.

Si moltiplicano i giornalisti che denunciano l’uso di scudi umani da parte di Hamas e l’utilizzo di aree civili (tra cui scuole e ospedali) come zone di lancio dei missili.
Peter Stefanovic, corrispondente della Tv australiana Channel Nine, ha twittato in diretta la notizia del lancio di due missili di Hamas a duecento metri di distanza dal suo albergo scoprendo una base missilistica nella porta accanto.
Il capo redattore a Gerusalemme del Financial Times, John Reed,  ha dichiarato di aver visto lanciare due missili verso Israele da vicinanze dell’ospedale di al-Shifa in piena attività di soccorso ai feriti.
Il 24 luglio scorso, Libération (testata francese non certo sospettabile di filo-sionismo) ha pubblicato la testimonianza di un giornalista franco-palestinese Radjaa Abou Dagga, inviato di un quotidiano francese e di una radio algerina, che ha raccontato di essere stato portato nell’ospedale di Al-Shaifa dove è stato interrogato da un gruppo di miliziani della brigata integralista di Al-Qassam che lì avevano la loro base. Al giornalista, la cui famiglia risiede a Gaza, è stato poi intimato lasciare la città e smettere di lavorare. Oggi l’intervista su Libération è stata oscurata su richiesta del giornalista stesso.

Il controllo dell’informazione da parte di Hamas, a Gaza, non si basa solo sulla coercizione verso i giornalisti, ma anche su precisi indirizzi propagandistici.
Il Ministero degli Interni dell’Autorità Palestinese di Gaza (in mano ad Hamas) ha prodotto un documento con le linee guida per la comunicazione con la stampa estera e sui social media. Il documento (tradotto in inglese su MEMRI) ha come obiettivi: saldare la coesione di Hamas, prevenire la fuga notizie utili a fini militari per Israele, rafforzare l’immagine della causa palestinese nel mondo arabo e in Occidente.

Alcune regole sono un esempio perfetto di strategia manipolatoria e psicologia comunicativa:

  1. Qualsiasi morto, anche se “martirizzato” (cioè ucciso in combattimento) dev’essere definito “civile di Gaza o palestinese”.
  2. Ogni report deve iniziare con la frase: “in risposta al crudele attacco israeliano”
  3. Divieto di pubblicare foto di missili lanciati contro Israele
  4. Divieto di pubblicare qualsiasi foto di siti di lancio o di movimenti di militari
  5. Agli amministratori di pagine Facebook è sconsigliato pubblicare foto di uomini mascherati e armati per non incorrere nella cancellazione dell’account

Il documento definisce anche le tecniche di persuasione nelle discussioni, invitando ad usare argomenti politici e razionali quando si discute con un occidentale e temi emotivi quando si parla con un arabo; non lodare i successi militari ma mantenere sempre un atteggiamento vittimistico e soprattutto evitare (quando si parla con gli 0ccidentali) di “provare a convincerli che l’Olocausto è una menzogna”.

Manuel Castells, uno dei più importanti sociologi contemporanei, nel suo libro “Comunicazione e Potere” ha scritto: “i media non sono il Quarto Potere. Sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere”.
Hamas lo ha capito bene.

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