La bici è una religione. Fatta di fatica, di sudore, di silenzi interminabili, di solitudine e di mani sporche di grasso. La bici è un modo di essere che ti porta ad andare pedalando da Londra a Parigi, nelle Fiandre, dalle Alpi ai Pirenei. La bici serve per muoversi anche in una città ostile come Milano. La bici non ha bisogno di slogan: «Ghe veur i garun!»  diceva Alfredo Binda, uno che in bici ci è andato da campionissimo forse più di Coppi. La bici è uno stile sobrio, non c’è bisogno di ostentare e di sfilare. Ma soprattutto la bici non ha bisogno della politica. E’ difficile dire che i 4mila che ieri hanno pedalato in corteo per chiedere più spazio in una città che ha piste ciclabili indecenti e che sulla ciclabilità si fa propaganda non abbiano ragione. La bici non inquina, occupa poco spazio, è silenziosa, fa una gran bene alla salute e all’umore delle persone e quindi andrebbe promossa e sostenuta. Non fa una piega. Ma è anche difficile dire che ieri quegli stessi 4mila non avessero una precisa connotazione politica. E infatti sul corteo ci hanno messo il cappello i soliti: da Carlo Monguzzi a Ermete Realacci a Mattia Calise, da Legambiente alle mamme antismog, dai centri sociali alle tante sciure radical con le loro belle bici olandesi con tanto di cestino in vimini e fiori finti. Il punto è tutto qui. Una città a misura di ciclista è un diritto ma la bici non deve diventare lo strumento per le solite, trite, battaglie di retroguardia.
E allora penso a ciò che  succede oggi a New York dove si corre la «Five Boro», una classica di 60 km che attraversa tutta al Grande mela. Campioni, ex campioni, appassionati, neofiti, famiglie, mamme e bambini. Tutti in bici senza striscioni, senza slogan, senza nulla, senza voler imporre niente a nessuno. Lì si pedala e basta ed è una festa. Per tutti.

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