L’ingegner Meucci da Pisa, o il soldato Meucci come preferite,  ha il senso del dovere. Chi vince una maratona che vale un titolo europeo deve averla per forza quella “roba” lì. Non si corrono 42 chilometri tutti di un fiato se non hai qualcosa di solido a cui aggrapparti. E Daniele Meucci,  che otto dopo anni prende dalle mani di Stefano Baldini  la corona di re della  maratona azzurra vincendo i campionati Europei a Zurigo, è un atleta che a 28 anni ha già costruito un bel pezzo della sua vita di affetti, di studi e di vittorie.  L’ha detto lui stesso piangendo al traguardo: “Gli ultimi chilometri sono stati un’agonia ma ho pensato a mia moglie e ai miei figli che mi hanno spinto fino al traguardo…”. Già i figli. Come Valeria Straneo ieri, come Vincenzo Nibali al Tour qualche settimana fa. Sta crescendo una generazione azzurra di genitori volanti e vincenti. Una generazione di mamme e papà che hanno il senso del dovere che solo padri e madri sono capaci di avere. Cambia la vita con i figli. Cambia la testa che impara a concentrarsi di più sulle cose che contano. Si trova il coraggio per fare le scelte e magari anche di sbagliare. Si fissano priorità, si  dimentica il superfluo. Non tutti ci riescono, molti sì. Gli atleti degli sport di fatica soprattutto. Perchè chi è già abituato a far sacrifici, a stringere i denti a restare concentrato su un obbiettivo quando sa che c’è un frugolo che lo aspetta a casa raddoppia le energie.  Corrono e pedalano con te. Ti spingono. Sai che tutto ciò che stai facendo è comunque un investimento che li riguarda. Sai che un po’ del tuo lavoro è per loro. Sai che si aspettano qualcosa da te. Sai che la tua gioia al traguardo sarà condivisa senza bisogno di cliccare, postare o twittare. Basterà un sorriso a ripagarti di tutto. Non so cos’abbia pensato Daniele Meucci stamattina salendo e risalendo verso l’Università di Zurigo dove il mondo normale non ci va di corsa ma con un trenino a cremagliera.  Non lo so ma di certo gli saranno girate e rigirate in testa  le frasi del suo allenatore Massimo Magnani e del suo compagno di squadra Ruggero Pertile che al 35mo chilometro gli hanno urlato che era arrivato il momento di giocarsela. Forse avrà pensato  al polacco  Chabowski che sembrava imprendibile e invece alla fine ha pagato un conto salatissimo o forse all’altro polacco  Shegumo che negli ultimi chilometri ha cercato invano di andare a prenderlo. Forse ha pensato anche che non poteva deludere quel mare di tifosi che lo appaludiva e che sembravano quasi tutti italiani perchè da queste parti il tricolore ha una orgogliosa storia di immigrazione . E forse a quel pettorale 666 che è il numero del diavolo e che era lo stesso con cui era arrivato sesto nei 10mila. Forse sì, ha pensato a tutte queste cose.  E ci ha messo due ore 11 minuti e otto secondi per mettere in ordine i suoi pensieri e per  realizzare che stava facendo ciò che molti speravano facesse e che pochi credevano sarebbe stato capace.  Ma a  uno che nel cassetto una laurea in ingegneria robotica  i conti alla fine tornano. Fosse solo perchè magari lo aveva promesso ai figli…

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