crisIl giallo di Chris Froome è un giallo che brilla. Eccome se brilla.  Si può dire ciò che si vuole. Che sia un robot, che non emozioni, che sia tutto watt e computerini, che non sappia inventarsi una corsa, uno scatto, uno sprint, che sia trasgressivo come uno yogurt bianco scremato, che sia un ragioniere del ciclismo che, come dicono i francesi (che non ci vogliono stare e però non hanno prove) sia dopè, che sia il frutto di un ciclismo senza eroi e  senza imprese. Si può anche dire che sia il capitano di una squadra di fenomeni  con tutti i dubbi e il chiacchiericcio che il perfezionismo e l’esasperazione agonistica degli inglesi si portano appresso. Si può dire tutto. Resta il fatto che quattro tour sono quattro tour e non si vincono per caso. Resta il fatto che forse sono cambiati i tempi e bisogna rassegnarsi. Che  Froome o non Froome, sulle Alpi e sui Pirenei ormai le salite si decidono in volata,  nessuno stacca più nessuno, tutti si guardano , si studiano, si seguono e si inseguono. Resta il fatto che nessuno inventa più nulla, per paura e per calcolo. Per strategia e per connessione perchè ormai allunghi, fughe e “menate” le decidono le ammiraglie, l’ordine arriva via radio altrimenti si va su regolare, in fila indiana, gruppo compatto. E allora? E allora Froome che c’entra? Froome è il prodotto perfetto di un ciclismo 2.0, programmato, preciso,  dove i conti tornano quasi sempre con una prevedibilità a cui forse si fa un po’ fatica ad abituarsi. Però i valori in campo restano una scriminante. Chi è più forte vince sempre è un postulato che nel ciclismo vale ancora. Vale sempre. Quasi sempre.  Ed è questo il fascino di uno sport che è cambiato ma che comunque  non ha bisogno di nuove regole, moviole in campo o fuoricampo per decidere chi vince. Bisogna mettere una mezza ruota davanti agli altri e di solito la mette chi ha più cuore e ò più gambe. Domenica sui Campi Elisi il masai di sua Maestà ha calato un poker che lo porta di diritto nel gotha del ciclismo di sempre. Piaccia o non piaccia è così. Pedala male, scuote la testa come uno di quei pelouche che una volta si mettevano sul cruscotto posteriore delle auto, non è simpatico, è freddo e scostante? E’ Chris Froome, di ghiaccio ma non troppo, imprendibile forse quest’anno un po’ meno,  algido ma comunque con il carisma che serve per far risaltare il giallo di una maglia che indossa con tutti gli onori. In un recente saggio intitolato “The indivisible man”, il giornalista inglese Ned Boulting ha provato a spiegare l’essenza ultima di Chris Froome. Un bel ritratto che racconta i chiari e gli scuri del keniano inglese e sta tutto ( quasi tutto) in una frase che chiude il racconto spiegando la grande certezza del suo presente: “ Correre in bici  è come stare tutti con le mani sul fuoco, e il primo che le tira via perde. Io semplicemente so che non sarò mai quello che tirerà via le mani per primo…”