chipUn chip sottopelle per capire se un atleta si dopa.  Come in un videogioco. Come dei replicanti, come delle macchine che interagiscono con uno smartphone trasferendo informazioni e dati in tempo reale. Mike Miller, ex-capo esecutivo della World Rugby Association e oggi alla guida della World Olympians Association, organizzazione che raggruppa 48 associazioni nazionali in rappresentanza di 100mila sportivi ha le idee in fatto di lotta al doping: «Noi mettiamo i chip ai nostri cani – ha spiegato qualche giorno fa sulle pagine del Guardian – e la cosa non sembra crear loro alcun problema. Quindi perché non ci prepariamo a fare altrettanto anche con i nostri atleti?». Secondo Miller «il problema con l’attuale sistema antidoping è che tutto quello che dice è che in un momento preciso non ci sono sostanze vietate nel sangue. Ma nessuno ci dice se non si sia barato in un altro momento e se si registrano cambiamenti nei marcatori». Miller ammette: «Non sono certo Steve Jobs ma credo che dovremmo spendere il denaro a disposizione per utilizzare la tecnologia più aggiornata. Dobbiamo combattere i trucchi. Ci credo, dobbiamo fermare il doping con le tecnologie più avanzate. Ora qualcuno dirà che è una violazione della privacy. Ok, è il club degli onesti, e chi non vuole seguire le regole può anche non iscriversi». Perché il fine giustifica i mezzi. Ma è sempre cosi? Perchè il machiavellismo così ci insegna. Che però è prassi spesso politica ma non sempre etica. Il fine giustifica i mezzi per raggiungere uno scopo ma non è detto che i mezzi siano adatti.  Sarebbe meglio dire e pensare che il fine deve sempre  rendere ragione dei mezzi impiegati per conseguirlo. E un chip sottopelle di un atleta è un mezzo che sicuramente potrebbe spiegarci e svelarci se nel suo sangue e nelle sue urine c’è del doping. E poi? Cos’altro ancora? Qual è il suo dna, quali i suoi valori dopo una allenamento, quali a riposo, come si possa incrementare la sua potenza, la sua resistenza, il suo sprint o la sua capacità di resistere e sopportare i carichi di lavoro? Ipotesi. Future, probabilmente possibili ma inquietanti.  Conta poco,  ma credo che un fine nobile ( lo sport libero dal doping lo è) debba essere raggiunto con mezzi che non siano discutibili, altrimenti  esso stesso è discutibile, entra in contrasto con la ragione che lo ispira. E un atleta che diventa sempre più simile a una macchina, sempre più un’interfaccia controllata e controllabile con la tecnologia un po’ mi ripugna. Credo sia la negazione del senso dello sport. Che è emozione, limite, incertezza,  impossibilità di programmare al millimetro e al secondo una reazione o una prestazione. Insomma lo sport un’altra cosa. Certo senza doping. Ma con un microchip sottopelle forse è peggio…