corsaCorrere è un esercizio spirituale. Soprattutto nel buio di una sera d’inverno, quando fuori piove e nevica e il vento ti taglia la faccia in due. Ma c’è un insano senso di responsabilità nei maratoneti che li porta a vincere  la sfida con la parte più pigra e più saggia,  a battere l’ansia di uscire a fari spenti lasciandosi alle spalle le luci di una città che al caldo si prepara alla cena e che , nel gioco dei contrasti, appare lontanissima. E più si allontana più ti tornano alla mente le parole di chi ha elevato la corsa ad una delle tante forme di arte: “Affronto i compiti che ho davanti e li porto a compimento ad uno ad uno, fino a esaurimento delle forze. Concentro l’attenzione su ogni singolo passo, ma al tempo stesso cerco di avere una visione globale e di guardare lontano. Come vengono giudicati il tempo che ottengo in gara e il mio posto in graduatoria, come venga considerato il mio stile, è di secondaria importanza. Ciò che conta per me, per il corridore che sono, è tagliare un traguardo dopo l’altro con le mie gambe. Usare tutte le forze che sono necessarie, sopportare tutto ciò che devo e alla fine essere contento di me. Imparare qualcosa di concreto- piccolo finchè si vuole ma concreto- dagli sbagli che faccio e dalla gioia che provo. E gara dopo gara, anno dopo anno, arrivare in un luogo che mi soddisfi. O almeno andarci vicino. Se mai ci sarà un epitaffio sulla mia tomba, e se posso sceglierlo io, vorrei che venissero scolpite queste parole: “Murakami Haruki, scrittore e maratoneta. Se non altro fino alla fine non ha camminato”. Perchè si dica quel che si vuole ma io sono un maratoneta…