adSi dice sempre, un po’ sul serio e un po’ scherzando, che i ragazzi fin quando non cominciano le prime “cotte” pensano solo allo sport. Poi…Poi generalmente mollano. Addio sogni di gloria. E’ infinita la storia di campioncini più o meno annunciati di cui si sono perse le tracce. Ovvio che i motivi dell’abbandono dello sport da parte di molti adolescenti sono diversi e  più seri. Ma i dati non sono buoni.  L’80% dei bambini italiani  pratica almeno uno sport ma verso i 14 anni, proprio durante la fase di sviluppo più delicata e in cui l’attività fisica è imprescindibile per la crescita fisica, psicologica e sociale, questo esercito di mini atleti si riduce drasticamente ben sotto la metà. Chi ha a che fare con figli adolescenti sa perfettamente quanto siano precari gli equilibri. Quanto sia difficile intendersi, imporre, concedere, negare, dialogare. Scuola, amicizie, famiglia. Lo sport non fa eccezione. E così l’allenamento o la gara  che qualche mese prima sembrava irrinunciabile all’improvviso diventa un impegno insostenibile. Gli esercizi noiosi, la fatica insopportabile: “Mi obblighi? Vedi che mi obblighi?”.  In realtà non è quasi mai così. Spingendo un ragazzo ad allenarsi, a non mollare, a tener duro  si cerca solo di tenerlo agganciato ad un ambiente, una squadra, uno spogliatoio che spesso, al di là dei risultati agonistici, trasmette buoni valori. Che spesso è un buon deterrente allo smartphone, alla noia con tutto ciò che ne consegue. Il “drop out”, così è denominato il fenomeno dell’abbandono, vale per la scuola ma vale perfettamente anche per l’attività sportiva. Spiegano gli psicologi che per capire perchè un adolescente lasci lo sport bisogna innanzitutto capire perchè ha cominciato. Con quali motivazioni. Generalmente si comincia a fare sport da bambini per gioco, per divertirsi e per conoscere nuovi amici e se vengono meno queste componenti, per gli adolescenti che non hanno una spiccata qualità agonistica, scatta una sorta di rifiuto. Non solo. In molti casi giocano contro le eccessive aspettative  dei genitori, la richiesta di risultati a tutti i costi, l’esagerata pressione agonistica di alcune società ( e di alcuni allenatori) a cui interessa più allevare la “batteria” di campioni che la formazione sportivo-culturale di un giovane.  Si insegna a perseguire il risultato e la vittoria, meno a gestire l’insuccesso o la sconfitta. E se per un adulto muoversi in queste situazioni è relativamente più semplice, per un adolescente diventa spesso la prima crepa nella propria autostima. Più che il risultato andrebbe premiato l’impegno. Se un ragazzo capisce che un allenatore non gli chiede il massimo risultato ma il massimo impegno non avrà il timore di fallire. E questo, senza bisogno di scomodare gli esperti, è già un bel punto di partenza.