39177596_1341266606007965_6992840703650824192_oE’ sceso di sella. Ha spento la saldatrice, messo via gli attrezzi e s’è n’è andato via. All’improvviso, a 62 anni, Dario Pegoretti, forse il più famoso creatore di telai per bici in circolazione, ha tolto il disturbo. Senza troppe “moine” come era abituato a fare . Era il re, il più bravo, anzi il migliore si dice in questi casi. Si dice sempre così quando qualcuno se ne va. Ma per rendersi conto di cosa sia stato questo artista trentino che da tempo viveva a Verona dove resta  la sua officina, la «Pegoretti Dario Cicli»  in lungadige Galtarossa, basta guardare ciò che ci lascia.  Non bici, telai, geometrie, colori che pure sono capolavori che hanno fatto il giro del mondo, che sono diventati oggetti da collezione, che sono stati esposti al Museo d’arte e design di New York,  pubblicati in tanti libri di design, premiati con  World Paper una delle più importanti riviste di architettura. Ci lascia un’idea, forse l’idea di cosa può essere una bicicletta. Ci lascia la convinzione che in un mondo dove tutto ormai si calcola e si programma, si automatizza valgano ancora il lavoro dell’uomo, la sua passione, ciò che ha in testa, ciò che riesce a fare con quegli attrezzi straordinari che sono le sue mani le mani. E la differenza è tutta qui: “Carbonio, titanio, acciaio? – spiegava in una delle sue ultime interviste a Ruota Libera su Radio 24–  una grande bici non deriva dal materiale che si usa. Viene dall’idea, dall’esperienza, dalle geometrie che uno ha in testa…”. E Pegoretti, che in bici aveva anche corso fin nelle categorie juniores, le sue creature  le aveva in testa da sempre come molti della sua famiglia. Come lo zio Mario, ciclista professionista, come Luigi Milani, suo suocero, lui pure telaista che nel 1975 gli chiese di andare a dare una mano in bottega e fece scoccare la scintilla, come  Luigino, suo figlio primogenito che ora raccoglie il testimone. Un’azienda di famiglia, in cinque per  far bici uniche  e irripetibili,  trecento all’anno, che vanno tutte all’estero: “Perchè con i clienti italiani spesso si dive discutere e allora meglio lasciar perdere…”. Soprattutto negli Stati Uniti, ma anche Gran Bretagna, Germania, Olanda, Australia, Malesia, Taiwan, Giappone e Sudafrica. La storia narra che Marco Pantani corresse con i telai di Pegoretti così come Claudio Chiappucci e Miguel Indurain. La realtà racconta che si aspettano anni per avere uno dei suoi gioielli, che fuori dall’officina c’è la coda, anche di vip da Ben Harper che gli dedicò uno dei suoi pezzi a Robin Williams che nella sua infinita collezione di Pegoretti ne aveva addirittura sei. La prima la comprò nello store di San Francisco, poi nè ordinò altre cinque. Una storia di amicizia che si strinse a Portland una decina di anni fa quando il “il capitano”, dopo aver saputo che Pegoretti aveva appena finito la chemio che gli aveva permesso di sconfiggere un tumore, andò a trovarlo nel suo stand durante una fiera e poi lo invitò a cena. Pensare, disegnare, saldare e decorare tutti verbi all’infinito che si trasformano in opere che viaggiano parallele tra la perfezione meccanica e  il genio avanguardista di una pop art modellata su due ruote. L’arte è in tutte le cose anche se Pegoretti, schivo com’era, si sentiva più artigiano che artista:  «Io non ho inventato niente – ripeteva- Ho semplicemente usato lo spazio e la superficie del telaio dal punto di vista estetico…”. Ed è sempre rimasto fedele all’acciaio e all’alluminio perchè  permetteva di ottimizzare la trasmissione della forza dal movimento centrale della bici alla ruota posteriore. Un’idea anche quella. La sua eredità, il suo modo di intendere la bici, che non può essere un oggetto da collezione perchè così sono solo quelle vecchie , che non è statica, che deve essere usata, che  è facile, che è comoda, che ci salverà e che nel futuro ci permetterà di muoverci perchè è l’unico mezzo che va senza bruciare qualcosa. Guardare avanti disincantati e visionari. Forse il segreto è tutto lì…