gimUn’altra pasta. Un’altra generazione che oggi sembra la preistoria di un mondo che fu. Un altro mondo quello di Felice Gimondi che in queste ore sta tornando verso Paladina a 15 km da Bergamo dove martedì mattina alle 11 si celebreranno i funerali.  Un pianeta il suo ormai  spazzato via, alla stessa velocità di un tweet, con pochi caratteri perchè ormai i concetti si esprimono in breve, non c’è più la pazienza per argomentare. Non ci sono più le sue bici,  le maglie, i corridori che correvano per un tozzo di pane. Non ci sono più quelle facce lì,  piene di rughe, imperfette, affaticate e struggenti nella loro semplicità. Non c’è più la storia di un ciclismo che riempiva le case, le metteva a tavola insieme davanti a un televisore, che dava un senso alle giornate di paesini dimenticati dove per un anno non succedeva nulla e allora si aspettava solo la corsa. Felice non era uno di noi. Non oggi. Non in un mondo dove lo sport è di un’altra dimensione, un’altra galassia. Dove Sagan e compagni (non tutti in verità)  hanno contratti da 5 sei milioni l’anno, dove i denari decidono corse, tracciati e  arrivi, dove spesso conta più il look delle gambe. Ma non è cambiato solo il ciclismo. Felice non era uno di noi perchè il suo mondo con quello di oggi ha poco o nulla a che spartire. Non valgono più le parole, le strette di mano, la pacatezza e l’educazione. Vale tutto e il contrario di tutto. Va avanti chi strepita, chi urla più forte, chi insulta, chi si esibisce. Non vale più la fatica, valgono le scorciatoie. Vale più un grande fratello qualsiasi o l’approdo su una delle tante isole che ci siamo inventati che non  il lavoro, l’applicazione , la serietà. Ed è talmente tutto vero che sembra quasi banale. Felice Gimondi, nel suo fantastico pragmatismo orobico, era esattamente il contrario di tutto ciò. Lontano, antico, fuori da un tempo che non c’è più e che più di qualcuno rimpiange. Felice non era uno di noi e  per questo sarà per sempre così’ amato.