Ernesto Colnago gliel’aveva mandata tutta bianca la bici per sfilare sugli Champs-Elysèes. Bianca perché di bianco si veste al Tour il giovane che arriva primo a Parigi. Ma Tadej Pogacar aveva altre idee per la testa. “Quando gliel’hanno consegnata, l’ha guardata ma non era per niente convinto – racconta Colnago – Così uno dei miei collaboratori mi ha telefonato subito e mi ha detto “Ernesto, guarda che al fieu la bici non piace. Non gli piace il colore….”

Colnago è un uomo veloce. Sempre stato veloce anche quando rischiò l’arresto in Spagna per andare a portare una sua bici a re Juan Carlos o quando, in una notte, fece due volte avanti indietro dal Vaticano per cambiare una bici da corsa a papa Wojtyla che ne voleva una da passeggio. Così ha capito al volo che di bici per il 21enne sloveno di Komenda avrebbe dovuto farne un’altra. E senza perdere troppo tempo perché la cronometro che avrebbe deciso il Tour de France numero 107 era alle porte e poteva riservare qualche sorpresa: «Ho chiamato subito un paio di miei tecnici, ho riaperto l’azienda e ci siamo messi al lavoro – racconta – In una sera abbiamo assemblato un telaio delle misure di Pogacar e l’abbiamo verniciato di giallo. Senza dir niente a nessuno perché io sono scaramantico. Però l’ho tenuto lì, pronto. Me la sentivo…».

Il resto è già storia. Tadej Pogacar sulle rampe della Planche des Belles Filles schianta le resistenze del suo connazionale Primoz Roglic che alza bandiera bianca: «Ho visto la cronometro in tv – racconta Colnago – Ho capito subito che il “fieu” avrebbe preso la maglia gialla quando è iniziata la salita. Guardavo lui che pedalava rotondo spingendo un rapporto che faceva velocità e poi guardavo Roglic che in punta di sella pedalava troppo agile e sembrava fermo. Ho fatto fatica a non emozionarmi. Avevo già capito e l’avevo già detto anche a Saronnni che quel ragazzo era un fenomeno…».

Ottant’otto anni che si sono fermati a settanta. Ottant’otto anni lavorando sodo, perché una volta era tutto più difficile di adesso, perché una volta la vita bisognava guadagnarsela un po’ più di oggi. Perché una volta era una volta e oggi è un altro mondo in cui però l’Ernesto continua a scrivere la sua storia. Cominciata in una piccola officina di 25 metri quadrati al numero 10 di via Garibaldi a Cambiago. L’Antonio e l’Elvira, i suoi genitori, volevano che continuasse a fare il contadino perché la terra c’era, rendeva e un paio di braccia in più facevano comodo, ma l’Ernesto lo sapeva che sarebbe finita come è finita.

Più di ottomila vittorie, campionati del mondo, Giri d’Italia, il record dell’ora di Merckx nel 1972 a Città del Messico, campioni come Magni, Nencini, Motta, Saronni, Bugno, Freire, Museeuw, Rominger, Tonkov, Zabel, Ballerini e Petacchi. Ed ora il Tour, sul gradino più alto del podio con una sua bici. Ed ora questo ragazzino sloveno con l’aria sbarazzina che a 21 anni pare un predestinato: «L’altra sera una delle prime chiamate che ho ricevuto è stata quella di Eddy Merckx- racconta- Gli ho detto Eddy guarda che quel fieu lì è il tuo erede. Mi sembra di vedere te in bicicletta. Mi ha fatto tornare giovane…».