Piove, fa un po’  freddo e, dopo il tappone dello Stelvio, paiono troppi 258 chilometri per una tappa di trasferimento che finisce in volata, quasi in volata con un blitz di Josef Cerny che a 20 chilometri dall’arrivo pianta in asso i suoi compagni di fuga e praticamente fa uno sprint infinito fino al traguardo. Così la 19esima frazione del Giro d’Italia, la Morbegno-Asti, diventa la Abbiategrasso-Asti con buonapace ( si fa per dire) di tutti.  Perchè chi deve pedalare si rifiuta di pedalare, chi deve decidere che i ciclisti devono pedalare acconsente a denti strettissimi per evitare  di aggiungere caos ad uno dei Giri più tormentati della storia e chi organizza tira fuori dal cappello una partenza dal piazzale della Mivar, storica fabbrica di televisioni di quel genio che fu Carlo Vichi e che oggi purtroppo è uno dei tanti imprenditori italiani costretti ad alzare bandiera bianca e meriterebbe un racconto a sè.  Ma la cronaca sono fulmini e tuoni. E’ tutta nel braccio di ferro tra i ciclisti e Mauro Vegni patron del Giro che a pochi secondi dal via ancora discutono, gesticolano, si spiegano ma in realtà non si intendono sulla differenza che passa tra diritti e figuraccia. E’ tutta in una crociata un po’ fasulla che fa rima con “furbata” soprattutto per chi magari guida la classifica e si risparmia così un bel po’ di fatica in vista della resa dei conti di domani e dopodomani. Non ci sono più i ciclisti di una volta. Non ci sono più gli eroi, i gregari ubbidienti, gli sceriffi che decidono per tutti.  L’epica è un’altra, scandita dai tweet sui social più che dalle edizioni speciali dei giornali del pomeriggio.  Il ciclismo ha una storia e sicuramente non merita di essere trattato così ma il ciclismo ha anche un presente che, piaccia o non piaccia, è quello che viviamo oggi. Uno sport che ha poca nostalgia del suo passato, che non viaggia più su strade bianche e auto decappottate ma su motorhome  da mille e una notte, con medici, strateghi, nutrizionisti, direttori tecnici, manager, responsabili della comunicazioni esterne e tutto ciò che serve a sostenere il peso di un movimento che è diventato un business . Non è peccato. Anzi. Se grazie a tutto ciò intorno al Tour, al Giro, alle classiche  si crea lavoro  e non solo per chi pedala ben venga. Ma allora il lavoro bisogna rispettarlo e difenderlo. Non facendo gli eroi, che non serve, ma facendo scelte responsabili e, se proprio non ci si riesce, almeno di buonsenso. Il lavoro è lavoro. Non ci si alza la mattina e se il tempo è brutto, se ci si sente un po’ stanchi, se si ha paura di mettersi su una statale in scooter per andare in ufficio si chiama la segreteria del personale per dire che anzichè otto di ore se ne faranno quattro. Non lo fa nessuno. No si capisce perchè  oggi lo abbiano fatto i ciclisti…