In un articolo su La Stampa Maurizio Molinari ha parlato della firma a distanza (7.676 km) che Obama ha fatto sulla legge che ha evitato agli Stati Uniti di cadere nel precipizio fiscale (fiscal cliff), dopo l’accordo in extremis raggiunto dal Congresso. Subito dopo l’accordo, infatti, Obama è tornato alle Hawaii in vacanza con la famiglia, e per firmare la legge ha utilizzato la “robot pen“, una speciale macchina utilizzata per promulgare le leggi a distanza. Una pratica che negli Stati Uniti va avanti dal primi dell’Ottocento, quando alla Casa Bianca siedeva Thomas Jefferson. Nella sua casa di Monticello (Virginia), ho avuto modo di vedere il “poligraph” (nella foto), una macchina che, utilizzando i principi del pantografo, permetteva allo statista americano di duplicare le missive che scriveva.

Da essa derivò l’autopen  il modello originario della robot pen usata di recente da Obama. A realizzare il prototipo fu un ingegnere inglese, John Isaac Hawkins. Da allora quasi tutti i presidenti l’hanno utilizzata. Ma più di una volta ci è chiesti se fosse una procedura lecita. A chiudere una volta per tutte ogni dubbio è stato il Dipartimento di Giustizia americano, nel 2005, riconoscendo il diritto del presidente americano di potersi muovere nel mondo senza dover stare necessariamente a Washington per firmare le leggi e i documenti ufficiali (leggi il documento). Così come la valigetta nucleare anche la robot pen è protetta con la priorità massima dagli addetti alla sicurezza della Casa Bianca. Le ragioni sono ovvie. Impossessarsi di essa equivarrebbe a “clonare” il presidente. Con tutte le conseguenze del caso.

 

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