Se c’è una città che più simboleggia la crisi economica e la disperazione in cui era sprofondata l’America, questa è Detroit, “Motor City”, la capitale dell’auto a stelle e strisce. Con General Motors, Ford e Chrysler, uscivano quasi tutte dagli stabilimenti di questa città del Michigan le auto vendute in America. Poi il meccanismo lentamente si è inceppato, e imperdonabili errori politici hanno prodotto, come risultato, un deficit da oltre 18 miliardi di dollari (di cui circa dieci in pensioni non finanziate). E la crisi si è tradotta in fuga: dai due milioni di abitanti negli anni Cinquanta la città si è rimpicciolita sempre più, arrivando ai 681mila di oggi. Con l’inevitabile conseguenza che, se calano gli abitanti, vanno in picchiata anche le risorse a disposizione. Così una città intera è finita al tappeto. Un solo dato per comprendere il fenomeno: con poche centinaia di dollari fino a poco tempo fa era possibile acquistare una casa con giardino, perché tanto, ormai, non le voleva più nessuno e, abbandonate al loro destino, diventavano – e sono diventate – ruderi fatiscenti. Ora però Detroit è in ripresa. E non solo per Motor City: come hanno scritto Pierluigi Bonora su il Giornale e Mario Platero sul Sole 24Ore, i politici hanno capito che bisogna diversificare: si punta, così, sulla ricerca (soprattutto medica), difesa e istruzione universitaria di qualità. Insomma, c’è vita oltre l’auto.

Detroit, come dicevamo, è un simbolo. E proprio per questo l’ex governatore della Florida, il repubblicano Jeb Bush, ha scelto di tenere un discorso proprio al Detroit Economic Club, in quello che molti giornali definiscono il suo primo discorso “in campagna elettorale”. Anche se la discesa in campo ufficiale ancora non c’è stata. Il luogo scelto dice molto su come intende impostare la sua corsa. Detroit è uscita dalla bancarotta lo scorso dicembre ed è la città giusta da cui lanciare un messaggio di forza e speranza: anche se si è caduti in basso, letteralmente sprofondati, c’è sempre la possibilità di rialzarsi. Un messaggio che più americano non si può. Bush punta le sue carte sulla crescita economica, che deve essere molto più forte rispetto a ora, nell’interesse di tutti: ricchi e poveri, operai e imprenditori, finanzieri e disoccupati. E’ una città difficile Detroit, a maggioranza afroamericana, dove i Repubblicani non raccolgono grandi consensi. Ma la sfida, per essere davvero tale, va giocata sul difficile, cercando di prendere il maggior slancio possibile. Bush ritiene di aver trovato la ricetta giusta per rilanciare il sogno americano, “diventato un miraggio per troppe persone”. Propone una “nuova visione” per creare maggiori opportunità. L’ex governatore della Florida parla chiaramente del “right to rise” (diritto di crescere, il cosiddetto “ascensore sociale”). “La ripresa è ovunque tranne che nelle buste paga degli americani. Il sogno americano è diventato un miraggio per troppi. La questione di fondo che dobbiamo affrontare qui a Detroit e in tutta America è: possiamo recuperare quel sogno, quella promessa morale, che ogni generazione può far meglio?”. E poi ancora: “Pensiamo che ogni americano e ogni comunità abbia il diritto di perseguire la felicità. Hanno il diritto di crescere”. E lascia capire che ormai la sua scelta (di correre per le primarie del Gop) è fatta: “Sono tornato in politica perché questo è il posto in cui il lavoro deve iniziare”. In un passaggio del suo discorso si sofferma anche sul peso del cognome che porta (il padre e il fratello sono stati presidenti degli Stati Uniti). Bush lo dice con orgoglio: “Amo mio fratello e credo sia stato un grande presidente”. Lo stesso vale per il padre.

Basterà a convincere i Repubblicani? La destra del partito già ruggisce: “Basta Rino (Republican in Name Only – Repubblicani solo di nome), serve una vera svolta per riportare l’America sulla retta via”. La sfida è già iniziata. Ne vedremo delle belle. E non solo a destra.

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