AdBLo scorso 30 marzo a Milano si è tenuto un convegno, organizzato da Circolo Proudhon e Intellettuale Dissidente, tutto dedicato al populismo, cui hanno partecipato Luca Lezzi, Marcello de Angelis e Marcello Foa. Ne è nato un dibattito che ha utilizzato le idee fondamentali di questo(i) movimento(i) per scandagliare l’attualità politica. Perché, in fin dei conti, al di là di persone e movimenti, ciò che importa nell’analisi politologica è quel che i programmi veicolano, le tendenze e le linee di forza che i nuovi partiti “populisti” traducono, in modo più o meno consapevole. Dietro all’emergere di queste formazioni si agitano esigenze epocali, spesso misconosciute, se non proprio demonizzate, dall’establishment. Ma sono esigenze che richiedono attenzione e devono essere riconosciute e interpretate, non ridotte a vecchie categorie ormai in fase di “rottamazione”, per utilizzare un termine parecchio in voga oggi, ma semplicemente ascoltate. Ne abbiamo parlato con Alain de Benoist, teorico delle Nuove Sintesi, da decenni attento osservatore “controcorrente” della politica contemporanea e autore di un libro pubblicato in Francia da Pierre-Guillaume de Roux, il cui titolo è programmatico: Le moment populiste. Droite-gauche, c’est fini!. Abbiamo iniziato questa conversazione domandandogli, appunto, quali siano i principi e le esigenze sociali che emergono nel fenomeno “populista”.

La principale tendenza storica del nostro tempo – che spiega anche il fenomeno “populista” – è la crescente diffidenza di una parte sempre più ampia della popolazione non solo nei confronti della politica “classica”, ma anche rispetto alle élite mediatiche, economiche, finanziarie e istituzionali, che vengono percepite come oligarchie ripiegate su se stesse e preoccupate unicamente dei loro interessi. A ciò si deve aggiungere il divario che si è venuto a creare tra il popolo e i partiti di sinistra, dopo che questi ultimi hanno cessato di difendere gli interessi delle classi popolari, sia perché si sono allineati del tutto ai princìpi capitalisti liberali della società del mercato, sia perché hanno iniziato a disprezzare e recriminare le idee e gli orientamenti del popolo.

Ciò ha generato ulteriori complicazioni politiche, a testimonianza della situazione di profonda crisi nella quale versa la democrazia liberale, parlamentare e rappresentativa. I popoli non si riconoscono più in quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Votano, spesso a distanza di poco tempo, per partiti differenti, che li deludono, uno dopo l’altro. Si propone un’alternanza quando invece occorrerebbe un’alternativa. Ecco che, allora, le genti si rifugiano nell’astensionismo o iniziano a votare in massa per partiti “atipici”, i quali si propongono di utilizzare il loro potere politico articolando le necessità politiche e sociali partendo dalla base. Da qui nascono la crisi della rappresentanza e la richiesta di nuove forme di democrazia: democrazia diretta, partecipativa, referendaria, e via dicendo.

È da quarant’anni che viviamo nella cosiddetta “società dei due terzi”: un tempo, un terzo era costituito dagli scontenti, mentre gli altri due erano più o meno soddisfatti del sistema politico vigente. Anche ora ci troviamo in questo paradigma, sennonché la proporzione si è invertita: ora i due terzi sono insoddisfatti, mentre i vecchi partiti governativi non riescono nemmeno a riunire un terzo dell’elettorato…

 

Il termine “populismo” ha una lunga storia alle spalle. Quali le peculiarità dei populismi di oggi rispetto a quelli che si sono affacciati sulla scena politica in passato?

Vi sono certamente caratteristiche nuove, ma sono il riflesso dell’epoca in cui ci troviamo più che testimonianze di una trasformazione del populismo in sé. Penso, per esempio, al ruolo di Internet come fonte alternativa d’informazione, oppure all’importanza assunta dalle reti sociali. È ormai cosa nota. Ma il tratto principale dei movimenti populisti, in fondo, è sempre lo stesso: l’idea di ricorrere al popolo (sia che certi partiti pretendano, a torto o a ragione, di parlare in suo nome, sia che il popolo stesso trovi i mezzi diretti per esprimersi in prima persona) al fine di destabilizzare e affossare la classe dominante.

 

Un modo di affrontare le necessità sociali che sembrerebbe definire una nuova geografia politica, ormai non più ascrivibile alla vecchie coordinate destra-sinistra. Come definire le nuove frontiere del dibattito politologico?

Ciò cui assistiamo oggi è un mutamento radicale della “geometria spaziale” politica. Fino a qualche anno fa, la vita politica si ordinava attorno all’asse orizzontale destra-sinistra, con una lancetta che ondeggiava ora da una parte, ora dall’altra. Con l’avvento del fenomeno populista, l’asse orizzontale è stato rimpiazzato da uno verticale: il popolo contro le élite, “ciò che sta in basso” contro “ciò che sta in alto”. Questa differenza è fondamentale.

Ne deriva una relativa cancellazione dell’opposizione tra destra e sinistra, che permane in certi dibattiti, ma ha perso quel ruolo essenziale che ricopriva in altri tempi. Non bisogna nemmeno dimenticare che questa stessa opposizione era parecchio equivoca, da un lato perché sono sempre esistite destre e sinistre (al plurale) molto differenti, dall’altro in quanto il valore e il contenuto di questa opposizione non hanno mai cessato di variare da un’epoca all’altra – nonché da un Paese all’altro. Ultimamente, è il ricentramento dei programmi dei vecchi partiti di governo ad aver contribuito a far saltare il senso di questa opposizione. Le persone hanno ormai l’impressione che uomini “di destra” e “di sinistra” siano sostanzialmente legati alle stesse idee, e che a variare siano solamente le scelte dei mezzi per raggiungere gli stessi obbiettivi. Il risultato è che non si capisce più cosa voglia dire essere “di destra” o “di sinistra”. I populismi, da parte loro, associano frequentemente tematiche di destra e di sinistra – un aspetto altrettanto significativo.

Ciò che è interessante vedere è come il raggruppamento populista destra-sinistra che si verifica alla base ne provochi, per reazione, uno analogo al livello delle élite, le quali, sentendosi minacciate dall’avanzata del populismo, tendono a unirsi, dimenticando le opposizioni di ieri. In Francia, oggi, è questo il senso profondo della duplice polarizzazione che si sta verificando attorno ai movimenti di Marine Le Pen ed Emmanuel Macron. La prima ha il sostegno della maggior parte delle classi popolari e di parte delle classi medie, mentre Macron è il candidato delle potenze finanziarie, delle élite de-territorializzate e sradicate, dei flussi migratori e della mondializzazione.

 

Stampa e forze politiche non cessano di applicare ai movimenti di cui stiamo parlando l’etichetta di “fascisti”. Un’espressione che, più che definire, in realtà sembrerebbe rivelare una mancanza di comprensione nei confronti del fenomeno…

Trattare i populisti alla stregua di “fascisti” è tanto patetico e stupido quanto lo è parlare d’“islamo-fascismo” o denunciare la “minaccia comunista” venticinque anni dopo il tracollo del sistema sovietico. Chi utilizza questo termine lo fa in genere per ragioni squisitamente polemiche: l’intento è quello di delegittimare il populismo attraverso una retorica discorsiva imperniata sull’anatema. Altri lo fanno solo per ignoranza: semplicemente, non sanno cos’è il populismo, non sanno cos’è il fascismo… Non comprendono ciò che accade e cercano di colmare la loro incompetenza, paralisi intellettuale o incapacità di analisi interpretando la novità con il già visto – cosa che, evidentemente, non impedisce al populismo di prosperare. Il tempo dei fascismi e dei comunismi è alle nostre spalle. E la demonizzazione non funziona più!

I primi populisti moderni apparvero alla fine del XIX secolo: in America, con il movimento dei grangers, e in Russia, con quello dei narodniki. Tali movimenti precedono, dunque, il fascismo, e non ne costituiscono la prefigurazione. Ma vi sono state anche ideologie fasciste senza populismi ad esse collegati. Il populismo, insomma, non è un’ideologia, quanto piuttosto uno stile (e una modalità di articolare la necessità politica e sociale) che può combinarsi con qualsiasi ideologia. Basti pensare alla differenza tra Podemos o Syriza da un lato, e Nigel Farage o Geerd Wilders dall’altro! Il leader populista, nel quale chiunque deve potersi riconoscere, è a sua volta completamente diverso dal carismatico leader fascista. A differenza del fascismo, il populismo non ha alcuna ambizione di creare l’“uomo nuovo”. Infine, se il populismo critica la democrazia liberale è per richiedere più democrazia, non meno – cosa che non mi pare sia avvenuta nei fascismi…

 

Per concludere, l’emergere dei populismi fa vacillare parecchi princìpi già in crisi (l’Europa monetaria, burocratica e oligarchica, la mondializzazione, il concetto di nazione…). Quali scenari potrebbero aprirsi?

È troppo presto per sapere ciò che genererà l’emergere dei populismi. Tenuto conto della grande eterogeneità di questi movimenti, potranno esservi risvolti diversi. Certo, quando si tratterà di stilare un bilancio, questo verrà necessariamente contrastato.

Ciò che bisogna vedere, piuttosto, è il ruolo giocato dai populismi nel paesaggio politico, per come l’abbiamo conosciuto fino a oggi. La vittoria del populismo segna l’ora del declino dei grandi partiti governativi, che in passato si stagliavano sulla scena politica ma oggi non rappresentano altro che frazioni elettorali sempre più ridotte. Il Grecia, l’arrivo al potere di Syriza ha quasi fatto scomparire l’antico partito socialista, il Pasok. In Austria, le ultime elezioni presidenziali hanno visto opporsi un populista e un ecologista. Nei Paesi Bassi, nelle ultime elezioni il partito socialista ha perso ventinove deputati su trentotto. In Francia, il partito socialista sarà per la prima volta assente al secondo turno delle elezioni presidenziali, e potrebbe accadere la stessa cosa agli avversari “repubblicani”. Partiti che, alternandosi, sono stati al governo per più di trent’anni.

È la dimostrazione che, da un punto di vista politico, stiamo per voltare pagina. E che il fenomeno populista partecipa pienamente all’epoca attuale, che è un’epoca di rinnovamento e transizione.

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